“Provo le vibrazioni del Magnificat, che Maria m’ha insegnato, col Vangelo, a ripetere dal primo giorno che ho sperimentato i disegni di Dio e che ho capito di lodarlo attraverso la folle bontà che voleva d’un infermo, un eletto”. Sono le parole di un giovane poco più che ventenne alla vigilia della sua Prima Messa. Giovanni Battista Montini è come annichilito di fronte all’incipit della Salvezza. Un annuncio, a Nazareth. Un annuncio, a Betlemme. Riservato ad anime semplici, incapaci di decodifiche articolate.
Le vibrazioni del cuore sono l’unico metro possibile. Ed anche un uomo complesso come Montini, con la sua ricchezza spirituale, la sua cultura, la sua radice familiare, sembra spiazzato dalla semplicità, dall’essenzialità di quell’annuncio. Talvolta si ha perfino l’impressione che non se ne senta degno. Quel Bambino lo travolge.
Il futuro sacerdote che negli anni Venti, nella vivacissima Brescia della Pace e dei suoi padri, del vescovo Gaggia, di un movimento cattolico che ha lasciato segni indelebili, attraversa il Novecento con un unico grande, pesante cruccio: come mantenere vivo, aggiornato, quel duplice annuncio? Come incarnarlo in una società sempre più complessa? E anche quando salito alla Cattedra di Pietro sarà costretto a portare il peso di una Chiesa in movimento, con un Concilio ereditato, una sua recezione complicata, un mondo che già inizia a sentir bruciare le ferite della propria apostasia, è là, in quella grotta, che il papa cerca le parole cruciali. A quella grotta, si potrebbe dire, vorrebbe condurre il mondo intero.
Paolo VI sembra meglio vedere il paradosso del Dio fatto uomo proprio negli anni della vecchiaia, in una luce retrospettiva. Come se ciò che sempre ha avuto davanti agli occhi divenisse improvvisamente più chiaro, più visibile. Insomma: se il Natale piace ai bambini, commuove nella sua chiarezza i vecchi.
E tuttavia anche il suo magistero natalizio è ricchissimo di domande. Qualcuno ha avanzato la superficiale lettura del papa dubbioso, frastornato. Paolo VI non nutre il dubbio. Lo affronta. Lo carica su di sé e interloquisce. Chiama a sé l’uomo “che ha perduto le chiavi di casa” e vaga intorno alle mura perché non sa più come rientrare; lo accompagna nell’unico luogo in cui è possibile vedere l’invisibile: la grotta di Betlemme, laddove “veruna lacrima, se è buona, sarà sparsa invano” (Natale 1963). Eccolo, il Natale, che il mondo ha ridotto a consumo, a canzoncine, a lucine e nastrini e che infine, dopo averlo spremuto e deturpato, ha perfino il timore a pronunciarlo, ritenendo quella parola divisiva, imbarazzante. Eccolo con la sua semplice, disarmante logica: “Il cuore dell’Onnipotente si apre! Dietro la scena del Presepio c’è l’infinita tenerezza del Creatore che ama” (1963).
Il presepio: colpisce quanto cara sia a Paolo VI questa rappresentazione dal cuore francescano, che abbiamo piegato alle nostre logiche simboliche e riempito di cose inutili, qualche volta perfino blasfeme. San Francesco – spiega Paolo VI – semplicemente ha voluto avere davanti agli occhi la scena cardine che ha spezzato il mondo in un prima e in un dopo; ha voluto, nella logica medievale del segno, vedere “come Gesù ha voluto entrare nel mondo” (1969). In quella grotta, sottolinea il papa – si realizzano in un unico incontro due cammini convergenti: quello di Dio che cerca l’uomo e quello dell’uomo che cerca Dio. In quella grotta, Cristo fa della terra la propria patria (Messaggio ai giovani, Natale 1975, a chiusura dell’Anno Santo).
Da una parte dunque vi è “l’itinerario misterioso di Dio, che scende i gradini abissali della sua trascendenza” e “si avvicina in modo nuovo, soprannaturale, alla nostra terra, alla nostra storia; e approda infine nell’inattesa umiltà di Betlem e nella candida purità di Maria sulla nostra sponda terrestre; si fa uomo; è Cristo”. Dall’altra, un altro itinerario, “il nostro, tortuoso e affaticato, senza mèta precisa per sé, ma poi avviato ad una vaga e struggente speranza, una speranza superiore alle nostre forze naturali, la speranza d’arrivare a Dio, la speranza di scoprirlo nell’uomo”.
Insomma, in quel luogo sperduto “l’orologio della storia [si collega] con l’eternità” e “si tocca la pietra che non invecchia, che non teme l’usura degli anni, che è sempre eguale a se stessa”. (1964).
La grotta di Betlemme è così la radice di ogni luogo in cui Dio chiede di essere custodito, dalla casa alla chiesa, fino alla tomba, il luogo del Requiem. Paolo VI contro ogni astrazione, contro ogni “nomadismo eclettico” – come ripeteva il grande storico Giorgio Rumi – riconduce Dio alla sua casa, e con lui ogni uomo che cerchi la certezza di un incontro, che non avvenga nel vuoto e nel vago, ma in un qui che lascia segni nella storia. “I pastori – sottolinea Paolo VI – avrebbero potuto discorrere, riflettere, indugiare nella curiosità e meraviglia o nel riposo. Invece, dopo aver ascoltato, si pongono immediatamente in cammino”. Quel luogo c’è. Qualcuno li condurrà alla meta. Senza un posto Dio è poco più di un’idea.
Fatto e luogo: sono proprio il contrario della presunzione utopica di una società che ha destrutturato ogni certezza, ha frantumato ogni solidità, accontentandosi di una liquidità euforica. La preoccupazione di Paolo VI si appunta proprio sul “cuore di carta” dell’uomo moderno, travolto da un “tremendo e fatale spostamento dell’asse del vivere umano [che] sta avvenendo sotto i nostri occhi: da teorica la negazione di Dio sta diventando pratica; da ristretta ad alcune menti speculative, sta diventando mito delle folle; all’ateismo razionalista e scolastico sta succedendo l’ateismo materialista e sociale. Sta affermandosi una mentalità falsamente umanistica, imbevuta di radicale egoismo, perché chiusa alla conoscenza e all’amore di Dio, e fondamentalmente inquieta e sovversiva, perché chiusa alla luce e alla speranza di Dio”.
Come annunciare il Natale con la voce flebile del papa a tale modernità frenetica e rumorosa? Come farsi intendere, nel momento in cui è ormai diffusa consuetudine “vedere talvolta incompresi o travisati i Nostri intenti e la Nostra stessa parola”? Il 1968 è per Paolo VI un anno particolarmente doloroso. L’Humanae Vitae è la sua ultima enciclica. Non ne scriverà altre nei successivi dieci anni di pontificato. Dentro e fuori la Chiesa in molti e rumorosi, non hanno colto il grido d’amore del papa per la vita e per la famiglia. Per la santità della maternità e per la bellezza dell’amore. Davanti alla grotta di Betlemme il papa è come prostrato. La pena che accosta alla mangiatoia e al bambinello riguarda, questa volta, proprio la parola. La sua stessa parola. Il bailamme semantico sembra aver coperto definitivamente il sussurro lieve e garbato che annuncia la salvezza.
“Noi facciamo fatica a parlarvi. Noi avvertiamo la difficoltà a farci capire da voi. Noi forse non vi comprendiamo abbastanza? Sta il fatto che il discorso è per Noi abbastanza difficile. Ci sembra che tra voi e Noi non ci sia un linguaggio comune”. Il discorso è rivolto agli operai delle acciaierie di Taranto. È mezzanotte. Il papa con l’elmetto varca le soglie della fabbrica, visita gli altiforni, scorge negli occhi di chi lo ascolta una sorta di distanza. Paolo VI cerca il mondo, entra nel cuore del mondo con passo delicato e parola franca. Una franchezza che non risparmia il cammino stesso della Chiesa, assai problematico dopo la chiusura del Concilio. E a chi affidare la fatica di un passo tanto pesante, se non ancora al Dio-Bambino?
“La prima nota è appunto il movimento che investe la vita della Chiesa in ogni sua forma; l’altra nota è la difficoltà che essa, la Chiesa, incontra talvolta, tanto nell’interno degli animi, quanto negli ostacoli esterni che si oppongono ad un suo tradizionale e regolare funzionamento. Tempi forti viviamo, tempi instabili, caratterizzati da grande vivacità e insieme da grande problematicità. Il germe della contestazione cerca di insinuarsi anche nel Popolo di Dio, con questa sua irruente qualifica trasformatrice, resa sinonimo di progresso e di liberazione, con la sua violenta rottura con la tradizione, radice irrinunciabile per noi non solo di coerenza storica e di onore vittorioso sul tempo divoratore dei suoi figli, ma di ciò che il cattolicesimo ha di originale, di vitale, di immortale e di divino”.
“È vecchia la Chiesa?” si chiede il papa. “Non è anacronistica la sua esistenza? Non è sorpassata la sua forma di vita? E per ridarle attualità, non è venuta l’ora d’un radicale capovolgimento, che travolga i suoi dogmi, le sue strutture? Non deve anch’essa attingere la sua ragione di vita dal conformismo al costume dei tempi? Come può il mondo moderno attingere sapienza e vigore da un organismo costantemente frenato da una esigente tradizione? Tradizione, ecco la parola-chiave, che mentre tenta di chiudere la Chiesa in un suo sepolcro, apre a noi invece, se bene intesa, il segreto della sua misteriosa vitalità”. E poi quasi un grido appassionato: “Dobbiamo restituire alla Chiesa la sua pace interiore”, perché “la Chiesa è viva!”
L’orizzonte di Paolo VI è quello di un rinnovato umanesimo cristiano che da quella notte millenaria ha irradiato il mondo nuovo. Un umanesimo che contrasta con l’umanesimo piccolo “della cultura e della sociologia moderna, diventata in certe sue tipiche espressioni una utopia cosmica, che fa dell’uomo il Dio dell’uomo”. “Un altro umanesimo – proclama Paolo VI – Fratelli, col Natale di Cristo noi celebriamo un’altra concezione dell’uomo; e ciò ha oggi capitale importanza; così che la festa del vero Natale ci pone al vertice della scienza su l’uomo: l’antica sapienza del ‘conosci te stesso’, rimasta al grado interrogativo, ha oggi una sua sovrabbondante, anche se pur sempre misteriosa, risposta. La nostra antropologia conosce ed afferma una superlativa genealogia dell’uomo, creatura così bella, così nobile, così degna d’ogni nostra entusiastica ammirazione, da presentare in se stessa, nella sua essenziale composizione, ‘l’immagine e la somiglianza’ di Dio, candidata alla presidenza su tutte le creature”. (1973).
È l’orizzonte della “civiltà dell’amore” inaugurata proprio nella grotta di Betlemme. Ecco perché il Natale è intrinsecamente “festa dell’umanità” in cui onorare la vita nascente, generata dall’amore tenero tra un uomo e una donna, “non senza afflizione materna, ma poi per la gioia del mondo”, onorare l’infanzia, “letizia della società”, onorare la donna, “chiamata alla bellezza e all’amore privilegiato della verginità consacrata, o più sovente a quello pur sacrosanto della vita coniugale e al ministero incomparabile della maternità”, onorare il fanciullo, l’uomo “nella pienezza dell’età virile” come nella sua infermità, “l’umanità, decaduta e peccatrice”, “l’uomo, chiunque sia”, “l’uomo che avanza nella conquista della terra e dell’universo”, e “finalmente la vita defunta nella giustizia, a cui Cristo garantisce la sua pace e la sua prodigiosa risurrezione. Questo è il nostro umanesimo, quello della nostra vita candidata alla sua pienezza, alla sua terminale felicità, vittoriosa un giorno sopra la morte, e destinata a fare misticamente corpo con Cristo in una realtà, che sorpassa ogni aspettative” (1976).
“Egli è in cerca di noi”. Paolo VI celebra nel 1977 il suo ultimo Natale. Sente avvicinarsi l’ora decisiva. La meraviglia – che sempre ha accompagnato lo sguardo del papa sull’Avvenimento – prende il sopravvento, diventa canto. Riecheggiano i sentimenti del Pensiero alla morte: “Questa vita mortale è, nonostante i suoi travagli, i suoi oscuri misteri, le sue sofferenze, la sua fatale caducità, un fatto bellissimo, un prodigio sempre originale e commovente; un avvenimento degno d’essere cantato in gaudio, e in gloria: la vita, la vita dell’uomo!”.
Una vita: iniziata con le vibrazioni del Magnificat, si accinge a chiudersi con la grande, sconcertante consapevolezza che il vero dilemma che pesa sull’uomo è semplicissimo e irrisolvibile: “Si può accettare o rifiutare l’amore”. Altro non si può fare. Così, in questa dimensione che Paolo VI definisce dell’“undicesima ora”, in cui la follia del Natale si congiunge misteriosamente con la follia della Croce, campeggia la certezza semplice e paradossale dell’uomo di fede: arriva la notte, “tempo crescente di veglia, di dedizione, di attesa”, di cui la Santa Notte è il paradigma. In quella Notte, una creatura su tutte offre all’umanità il modello di ogni futura possibilità: è Maria madre della Chiesa che “conservava dentro di sé tutte queste cose, meditandole in Cuor suo. È una confidenza delicatissima e stupenda […] Ella ripensava, riviveva. Ella stessa cercava di meglio comprendere, di rendersi conto, di tradurre in termini di pensiero e di amore (quale pensiero e quale amore in quell’essere immacolato!), ciò che in lei e mediante lei era avvenuto in termini di fatto, di storia concreta, nelle circostanze esteriori, che noi qualifichiamo come reali”.
“La luce del tramonto allunga le ombre, ma la realtà appare più viva, visibile anche nei suoi particolari più nascosti, minimi, e l’orizzonte finalmente si disvela”: “La follia di Dio è più saggia di ogni saggezza umana e la debolezza di Dio è più dirompente di ogni forza umana”.
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