Per il generale Antonio Cornacchia il sequestro e la morte di Aldo Moro non sono un “mistero”, bensì «un punto interrogativo al quale si continua a non voler rispondere. Io sono un avversario della dietrologia, nel caso Moro si usa sempre la dietrologia»: lo racconta il militare in congedo in una lunga intervista al Tempo dove spiega nero su bianco come Papa Paolo VI tentò in tutti i modi di salvare l’amico Aldo Moro nei terribili giorni che andarono tra la strage di Via Fani e il ritrovamento del cadavere del Presidente DC nella Renault 4 rossa. Addirittura, il riscatto era già pronto da pagare ma all’ultimo una telefonata bloccò tutto.
«Il 6 maggio, tre giorni prima del ritrovamento del corpo, mi recai a Castel Gandolfo con l’ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane don Cesare Curione e padre Enrico Zucca, cappellano anche del Noto Servizio cosiddetto anello, un servizio segreto parallelo: 167 uomini di cui si servirono tre presidenti del consiglio: Andreotti, Forlani e in parte anche Craxi. Incontrammo il segretario di Paolo VI monsignor Pasquale Macchi», spiega il generale che comandava il Nucleo Investigativo di Roma dell’Arma dei Carabinieri durante il sequestro Moro. Un involucro con dentro 10 miliardi di lire erano pronti, disposti direttamente da Papa Paolo VI ma alle 19.35 di quella sera squilla il telefono e Macchi rimase impallidito dopo la risposta: «Ci hanno precluso di consegnare questo riscatto».
PERCHÈ ALDO MORO NON VENNE SALVATO
Anni dopo si è scoperto, racconta ancora il generale Cornacchia, che era stato un elemento della loggia di Cristo Re in Paradiso a chiamare e dare quell’annuncio: «verosimilmente il dietrofront venne quindi dal Vaticano stesso, che proibì al Papa di salvare Moro». Il politico Dc ucciso dalle Brigate Rosse non seppe mai di quei tentativi fatti da Papa Montini – tanto che scrisse in una delle famose lettere dal “covo” «il Papa ha fatto pochino» – eppure il Pontefice fece tanto, con dolore enorme davanti a quel rifiuto in arrivo “dall’alto”. «La morte di Moro faceva comodo a tante persone. L’Italia aveva perso la guerra e ci eravamo illusi di sederci ai tavoli alla pari con gli alleati, invece dovevamo sottostare a certe condizioni, una di queste era che il Pci, il più grande dell’Occidente, stesse fuori dalle stanze dei bottoni», racconta ancora il generale al Tempo, «anche l’URSS era contraria al fatto che un partito comunista potesse “democratizzarsi” […] Un funzionario americano a Roma, si riferì alla moglie di Moro, Eleonora, prefigurandole lo stesso destino di vedova di Jackie Kennedy».
Durissime le accuse mosse dal generale contro Andreotti e diversi apparati dello Stato che non vollero realmente salvare Moro da quel tremendo destino a cui fu sottoposto: «Cossiga voleva salvare Moro. Al Viminale sapevano dov’era la prigione, l’aveva scoperta il Generale Dalla Chiesa. Lui aveva allestito Unis, un contingente di 30 paracadutisti che aspettavano in via Aurelia, in attesa di avere l’ok per entrare in azione e liberare Moro. Fu un’attesa vana. Andreotti non diede mai il via libera e cercò di occultare la documentazione relativa a questa operazione. Ma gli incartamenti sono stati trovati dal Tribunale dei Ministri nel 1996, solamente che il Senato non concesse l’autorizzazione a procedere». Non solo, racconta ancora Cornacchia, un criminologo che collaborava con l’unità di crisi all’epoca del sequestro confessò al generale anni dopo «la linea iniziale del Comitato era quella di temporeggiare per poter contattare e scendere a patti con i vertici delle Br. Ma Andreotti e il Partito Stato non furono d’accordo. Il 18 aprile ci fu la certezza che Moro non sarebbe uscito dalla prigione».