È andato lui direttamente, in prima persona, a casa dell’aggressore: quello di presentarsi sottocasa, in Gesù di Nazareth, è il tratto tipico del Dio cristiano. L’ha fatto perché lui, alla fine della fiera, deve render conto al suo Padrone che, in materia di pace, ha idee chiare: “Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio”. E l’operatore di pace non è uno che rifiuta di fare guerra: è colui che entra in guerra per fare guerra alla guerra.



Mai un Papa aveva compiuto un gesto così ad altissima tensione: una sorta di incursione, in piena regola, a casa dell’aggressore. Si è presentato letteralmente disarmato (all’ambasciata russa presso la Santa Sede), a bordo della sua 500 e non blindato dentro il Lince o qualche carro armato nel quale si nasconde chi ha paura. È entrato zoppicando, preoccupato, a mani giunte: a chiedere semplicemente pace. Pur dotato di una diplomazia tra le più precise al mondo, ha fatto da solo, all’insaputa del mondo suo e nostro. E così, in sordina, il Papa è sbarcato laddove nessun Papa era ancora riuscito: in Russia.



Due anni dopo la Statio Orbis – come Mosè a trattare direttamente con il suo Dio, in piena guerra – lascia che la Chiesa italiana discuta nella Firenze di Brunelleschi e, chiedendo al ginocchio (quant’è birichino il ginocchio di Pietro!) di fare sforzi supplementari, va in guerra a trattare con il nemico. Come, qualche anno fa quando, nell’informalità di Casa Santa Marta, ha riunito i leader capricciosi del Sud Sudan e ha baciato loro i piedi per chiedere loro di fare la pace.

Certe volte somiglia ad un titolare d’azienda che, pur avendo nella sua scuderia validissimi agenti di commercio, va lui direttamente dal produttore per trattare l’acquisto delle materie prime: per essere sicuro del negoziato, delle traiettorie individuate, del prezzo pattuito. E la materia prima, per lui, è anche la prima materia che fa di una terra qualunque un pezzo di terra promessa: è la pace. E lui la vuol portare a casa a tutti i costi per poi condividerla con tutti i suoi figli, a qualsiasi nazione e fede appartengano.



È bastata mezz’ora a Pietrofrancesco per dare l’ennesima scossa alla sua Chiesa che, certi giorni, assomiglia ad una balena arenatasi sulla spiaggia: incapace di spostarsi in mare, sembra che le si versino addosso, a turno, bagnini d’acqua per tenerla irrorata, che non abbia a morire del tutto. E nessuno si accorge – pochi han la voglia di accorgersi – che l’acqua di cui abbisogna questa balena per ritornare regina del suo mare non sono (prima di tutto) le parole, i sinodi, le assemblee, ma l’azzardo francescano di andare nella tana del lupo – Gubbio, Mosca o Kiev non muta la sostanza – per cercare di aprire una trattativa. Con i lupi, i sultani: non con i chierichetti.

Per fortuna che ha un ginocchio malandato che fa le bizze: non immagino quali ottomila scalerebbe se gli funzionassero entrambi a meraviglia. Oppure è proprio perché è così malandato che i suoi passi, quando li si ode dopo che son già entrati nei covi pericolosi, aprono sentieri inimmaginabili. Quando lo vedo far questi negoziati sul ciglio della follia, mi torna alla mente il grande Annibale che, sconsigliato dai suoi generali di varcare le Alpi con gli elefanti perché non c’eran strade segnate, li rassicurò che le Alpi non avrebbero frenato il suo ardire: “Una strada la troveremo! E se non ce n’è nessuna, la apriremo noi”.

È di questa profezia, immaginata in ginocchio e non nei salottini romani, che la Chiesa urge, affannata com’è: o si decide a farsi prender la mano dal fiuto profetico di questo Papa, o si vedrà costretta ad inseguire i suoi gesti con i comunicati stampa, i rilanci di agenzia, i politicamente corretti “siamo vicini al Santo Padre”. Con il problema che, mentre scrivono, lui è già da un’altra parte, ad aprire trattative a nome di Dio. E siccome non gliene frega un fico secco di Pil, gasdotti, metano e quant’altro, ha la libertà di presentarsi sottocasa del lupo per offrirsi ostaggio, mediatore, pur di vedere il mondo ritornare a Cristo. È un figlio della luce che, stavolta, ha la scaltrezza dei figli delle tenebre. È un incrocio: di umano e divino.

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