Il carcere è il parcheggio imbruttito e trascurato della città: erbacce, asfalto dismesso, segnaletica insufficiente. Non esiste parcheggio, a rigor di logica, che faccia funzione di officina: abbandonando una macchina rotta in un parcheggio, non la si ritroverà aggiustata. Al carcere, invece, sovente si chiede l’assurdo: “Ti parcheggio certi uomini. Aggiustali, poi tieniteli”. Anche qualora, nel parcheggio, si trovasse un meccanico di buona volontà che ripari l’autovettura, per qualcuno non c’è gioia più grande di sapere che certe storie andranno scordate, sottratte, allontanate dalla città degli uomini. Non hanno più diritto alla cittadinanza.
Eppure, a scuola, tutti abbiamo avuto l’occasione di leggere l’Odissea e chi non l’ha letta non può vantare giustificazioni alla sua ignoranza. In quella storia, ch’è la mamma di tutte le storie, si racconta della guerra di Troia: dieci anni a far la guerra in nome della bellezza di Elena. Finì nel nome di Ulisse, l’avventuriero, l’emblema della furbizia: ben nascosto nel suo cavallo, espugnò Troia con tutto il suo ambaradan. Il vincitore però, di ritorno a Itaca, incappò in mille disgrazie. I troiani sconfitti, invece, misteriosamente trovarono gloria: secondo la leggenda Roma fu fondata per mano di Enea; la Francia per mano di Francio, un figlio di Priamo; l’Inghilterra da Bruto, il nipote di Enea. Incuriosisce l’illogico di questa vicenda: che tre potenze mondiali siano andate a cercare i loro antenati tra la stirpe che più di tutte impersonifica la sconfitta. “Ricordatevi sempre della guerra di Troia – fu l’invito del mio prof più geniale –: la vittoria rende arroganti, la sconfitta induce alla meditazione”. Per me Troia è città gemellata con tutti i fallimenti della storia, più che città simbolo dell’astuzia che conduce alla vittoria.
Ieri, in piazza San Pietro, Papa Francesco ha dato appuntamento a tutti coloro che operano all’interno delle carceri: non alle persone detenute – “Il Papa ha sempre in mente i carcerati!” dicono in tanti – ma a coloro che, nei parcheggi statali, s’inventano riparatori di storie, rifacitori di senso, esperti di umanità. Per dire loro: “Grazie per tutte le volte che vivete il vostro servizio non solo come una vigilanza necessaria, ma anche come un sostegno a chi è debole (…) Non dimenticatevi del bene che potete fare ogni giorno”.
E nel suo discorrere, sotto-sotto, mostrava di custodire un segreto: che lavorare lì dentro sia un’occasione gigante per ripassare la lezione di Troia. A breve sono i vincitori a scrivere la storia, alla lunga la storia si arricchisce maggiormente con l’esperienza dei vinti: «Non lasciatevi mai imprigionare nella cella buia di un cuore senza speranza, non cedete alla disperazione» ha aggiunto rivolgendosi alle persone detenute. Che sono gli sconfitti, i “mostri”, quelle storie abbandonate in quei parcheggi di cemento che sono le patrie galere. Storie che diventano terre di nessuno.
Dopo una vittoria chi vince riposa, festeggia. Dopo una sconfitta, chi perde sovente si rimette subito in moto: più feroce, più vitale, più agguerrito. Il Papa lo sa che questo è Vangelo e che gli errori, i peccati, sono storie che partoriscono altre storie: “Avanti! – dice rivolto ai cappellani ai religiosi, ai volontari – quando a contatto con le povertà che incontrate vedete le vostre stesse povertà. È un bene, perché è essenziale riconoscersi prima di tutto bisognosi di perdono”. Il Papa non ha paura: è troppo convinto che, alla fine, Dio non permetterà che la storia vada a finire in maniera diversa da come l’ha sognata Lui. Francesco è mal sopportato dai vincitori, è acclamato dai vinti: i cristiani vincenti, con i loro rappresentanti in doppio petto e berretto, gli vanno contro. I cristiani peccatori lo cercano per chiedergli un passaggio verso il Cielo: “Mai privare del diritto di ricominciare. Mentre si rimedia agli sbagli del passato – chiude – non si può cancellare la speranza”. Parlando degli sconfitti, furbo e santo com’è, rilancia il sospetto che sia troppo facile professarsi casti senza mai essere stati tentati.