In occasione del Giornata mondiale dei poveri, all’Angelus, il Papa punta il dito sull’indifferenza, uno dei cancri della nostra società. Quasi sempre ciò che fa bene al povero non è l’elemosina data una volta per togliersi di torno l’imbarazzo o il cattivo odore, ma l’attenzione quotidiana, la certezza di non essere trasparente.
Mi viene in mente la storia della senzatetto statunitense Emily Zamourka, divenuta famosa allorché un poliziotto in servizio ne ha sentito la voce meravigliosa, l’ha filmata e ha messo il video sul sito ufficiale della polizia: la canzone in pochi giorni aveva ottenuto 4 milioni di visualizzazioni ed Emily aveva avuto l’offerta per incidere un disco con un noto produttore.
Il poliziotto non si era accorto della donna, per lui era invisibile: per fortuna però la sua voce aveva passato il muro dell’indifferenza. La donna, una volta intervistata, aveva parlato della sua storia di emigrata, del suo amore per il violino e di come poi era stata costretta a venderlo per curarsi dal cancro. La Zamourka, quando aveva parlato di chi l’aveva esclusa, trattata male e costretta a vivere da clochard per le strade di Los Angeles, aveva anche aggiunto che, da quando era diventata “famosa” grazie alla sua voce impeccabile, voleva non solo godersi per sé quella fortuna ma dare speranza agli altri senzatetto e questo sarebbe stato il suo obiettivo più importante.
Proprio questo è stato il secondo tema dell’Angelus di papa Francesco: la speranza. Virtù che può nascere veramente solo in chi è povero, perché se hai tutto nulla ti puoi attendere da Dio e dagli altri. Per questo i poveri sono “i portinai” del Cielo. Tutti sperimentiamo che nella nostra società obesa, opulenta, ricca, non abbiamo spazio né per i sogni né per gli ideali. Solo se ci si spoglia delle cose inutili e anche di qualcosa di necessario, cioè se si diventa poveri, si può essere in grado di desiderare un mondo migliore, più giusto per tutti. Chi ha le mani piene di superfluo non può rimboccarsi le maniche per essere operatore di pace. Ecco, spiegata in maniera cristiana, la nostra società triste, solitaria, indifferente. Diffidente.
Accogliere il povero significa aprirsi alla condivisione, al dialogo, generare anticorpi contro la paura, il razzismo, il consumismo che ci rende obesi nel fisico e anoressici dell’anima. Per questo è anche necessario parlare non di “giornata del povero” ma di “giornata mondiale del povero”. Perché l’attenzione a chi ha di meno investe problemi economici, ambientali, sociali e religiosi, che sono “globali” e che, se affrontati, possono veramente consentire la costruzione di un mondo più giusto, più solidale, quindi più “cattolico”. Dare attenzione al povero è infatti un atto di carità soprattutto verso noi stessi. Significa riconoscerci a nostra volta bisognosi. Di affetto, protezione, sicurezza. E imparare così a rivolgerci agli altri con l’atteggiamento del perdono fraterno e della riconoscenza.
Vedere il povero e riconoscere la nostra povertà è un atto di nuovo e coraggioso umanesimo che, lontano da ogni megalomania consumistica ed antropocentrica, accoglie e custodisce la nostra comune fragilità.