Quando il gregge si sbanda, il lupo acciuffa sempre qualche pecora: è una legge di pastorizia e di buon senso. Spogliato dalla lingua dei teologi, è il senso della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (18-25 gennaio): all’apparire, ogni anno, è un campanello di allarme più che di ricreazione. La non-unità di chi dice di amare Cristo è una pugnalata al cuore stesso di Cristo: “Che tutti siano una sola cosa” è il sogno per il quale è nato e ha fatto la fine che ha fatto. Con un’aggiunta: stiano uniti “perché il mondo creda” (Gv 17,21). Che, tradotto, è di una semplicità fanciulla: se non state uniti, faranno fatica a credere che voi siete miei amici. Se il mondo è un grande tempio della discordia – anche Lucifero ha i suoi sogni –, Dio sogna d’innalzare il tempio della concordia. La non credenza di molti, dunque, non è solo questione di cuori induriti: è anche di cuori disuniti.
Quest’anno il tema è allettante: “Ci trattarono con gentilezza”. È dagli Atti degli Apostoli, che è il diario di bordo della Chiesa nascente. Dopo avere fatto naufragio, Paolo e la sua truppa vennero accolti così dagli abitanti di Malta: con una lezione di manutenzione umana. Da allora, quell’umanità elementare è diventata l’anelito di come si dovrebbe vivere come Chiesa: il condizionale, che è d’obbligo, dice che non è (ancora) così, che non è mai stato esattamente così, se non nel cuore di Dio. Il cuore, dunque, ci obbliga alla preghiera perché, se non saremo così, il mondo che non crede obietterà: “Perché dovrei credere? Cosa ci guadagno di umanamente utile che già non abbia?” Nel mondo va così: credo, non credo, perché dovrei credere. Siamo naufraghi, in cerca di un porto.
Preghiamo: partendo dalle radici, non dai rami, però. È dentro casa nostra il primo naufragio da affrontare. Dall’alto in basso: nell’irrequietezza di chi vuole fare gli sgambetti al Papa usando il predecessore (senza riuscirci); nell’infedeltà di chi dice di adorare il Crocifisso facendosi beffe dei crocifissi; nella disumanità di chi, senza usare l’umanità, obbliga all’umanità gli altri. Il mondo non ci crede: le chiese si svuotano, la storia ci ha relegato nei suoi confini – “Non siamo più nella cristianità” ha detto il Papa alla Curia –, si imbastiscono guerre di sospetti e fango tra preti e preti, tra preti e vescovi, tra i vescovi e il Papa. È l’ebollizione di una Chiesa che necessita di un’urgente manutenzione umana prima ancora che teologica o ecumenica. La quale sorgerà spontanea, o non nascerà affatto.
È la teologia spicciola. Anni fa, in una cella del nostro carcere, vivevano tre persone: una cristiana, una musulmana e una menefreghista in materia. Uno lavorava, l’altro puliva la cella, il terzo alternava lo studio al lavoro. Nel tempo di questa loro convivenza costretta, la concordia nacque di getto. Quando entrai a bere il caffè, respirai un’aria di casa: fu la più bella lezione di ecumenismo che mi ricordi. Le altre il tempo le ha cestinate in automatico: nulla produce nella mente dell’uomo un’impressione più profonda dell’esempio. Che è parte del carattere e non del curriculum.
Prego, dunque, per chi è restato dentro: in modo tale che chi se n’è andato fuori, vedendo noi dentro, non confermi la sua scelta fatta. Più che ecumenismo del bastian-contrario, è trattare con gentilezza l’intelligenza.