Il fatto è che le anatre depongono le loro uova in silenzio, mentre le galline schiamazzano impazzite. L’effetto è presto tracciato: “Tutto il mondo – scrive H. Ford – mangia uova di gallina”. Non c’è stata epoca, a memoria d’uomo, che abbia vantato così grande interesse per la comunicazione come la nostra. Il risultato, però, è di un’evidenza certa: più sofisticati divengono i nostri mezzi di comunicazione e meno comunichiamo. È l’epoca della perpetua connessione, il boom della comunicazione: tutti a comunicare che stanno comunicando. Però è anche l’epoca di un’inconfutabile solitudine: per comunicare, oltre al messaggio, è necessario un supplemento d’anima. Era il cruccio di Cesare Pavese: “Tutto il problema della vita è questo: come rompere la propria solitudine, come riuscire a comunicare con gli altri”. Etimologicamente – le sorgenti mantengono sempre la parola – comunicazione significa “mettere in comune”. E il mettere in comune dice spazi condivisi, luoghi d’ascolto, nostalgia di fraternità. Orecchi interessati: la comunicazione non parte solo dalla bocca che parla, ma anche dall’orecchio che ascolta. Era il gusto della vecchia lettera scritta a mano. Nel momento in cui la infilavi nella busta, cambiava del tutto l’aspetto: “Finisce di essere la mia e diventa la tua. Quello che volevo dire io è sparito. Resta solo quello che capisci tu” (C. Shine). Comunicare è fare la pasta con le parole, sfidare la loro fragilità.
Oggi in tutto il mondo si celebra la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali. È tradizione che ogni anno, nel giorno in cui la Chiesa fa memoria del santo Francesco di Sales, il Papa scriva un messaggio sul tema, a tema. A che pro, la Chiesa, s’intromette anche qui?
Ovunque c’è rischio di frana, la Chiesa è soccorritrice, porge l’assistenza. A maggior ragione se ne va della destinazione ultima del vagare umano. Le parole sono la forza a disposizione più potente: “Il Verbo si fece carne” (Gv 1,14). Da quell’attimo, da quando la Parola maiuscola si è fatta di carne, scansarla non è possibile: Ecce Verbum, ecco la Parola che sarà grammatica di qualunque altra parola. Ci son parole d’incoraggiamento, di disperazione. Parole appoggio, d’agguato, d’incidente, di guarigione, d’ostacolo, di ferita, parole di danneggio, di scasso e di verità. Manipolare le parole è volere manipolare la realtà, sapendo d’esserne nelle condizioni: se puoi controllare ciò che le parole significano, puoi controllare le persone che devono usare le parole per comunicare.
Non fu certo per caso che a tanti santi, di quelli andati a stanar l’uomo nei bassifondi dell’indigenza, stesse a cuore la padronanza delle parole, la loro significanza, la loro percentuale di rischio. Dal loro uso, scaturisce il volto stesso della comunicazione: “Ci siamo ingozzati di connessioni – scrive il Papa Francesco nel suo messaggio per la giornata di oggi – e abbiamo perso il gusto della fraternità”. “Ingozzare” è verbo d’indigestione: vomito, nausea, diarrea. La “fraternità” è giusto dosaggio: un po’ a testa, di tutto un po’ a tutti, assieme non da soli. Troppo furbo il Papa per non andare dritto a bersaglio: possiamo avere tutti i mezzi di informazione al mondo ma nulla sostituisce lo sguardo dell’uomo quando s’inchina, s’inginocchia a guardare l’uomo. Star connessi è un po’ come farsi il solletico: finita la connessione, tutto tace. Comunicare è condividere una notizia che in forma, che aiuta a stare in forma: è la felicità, ch’è tutt’altra cosa dal solletico. Il tempo determinato del solletico, il tempo continuato della felicità.
È un mondo spaccato in due: mezzo-mondo avrebbe cose da comunicare ma non gli è data possibilità. L’altro mezzo ha poco da dire ma ha tutto per dirlo. Pregare per la comunicazione? Certamente: è in gioco la vita stessa, sopratutto in una stagione, la nostra, nella quale il tipo di media con il quale si comunica forgia la storia molto più del contenuto della comunicazione. Con buona pace dei latini, monaci certosini delle parole. Quelli che “res tene, verba sequentur” (“Conosci l’argomento, le parole seguiranno”). Per questo val bene una messa.