La grande maggioranza dei sacerdoti sembra puntare nelle prediche ad una, pur importante ma ripetitiva, esegesi biblica: spesso soprattutto per evitare critiche e divisioni con interventi espliciti sulla politica e la società. Il Papa sembra muoversi su un altro piano. Ha, ovviamente, ben fondati i piedi nel Vangelo, ma parla con chiarezza e decisione, affrontando i grandi temi sociali con indicazioni operative e richiami alla concretezza della politica.
Ne è una prova una delle ultime udienze generali in cui Francesco ha parlato con forza valorizzando il principio di sussidiarietà e richiamando alla necessità di lavorare insieme e di valorizzare competenze e volontà di ciascuno, soprattutto in una dimensione sociale.
Dall’attuale crisi si esce, ha sottolineato, “insieme o non funziona: o lavoriamo insieme per uscire dalla crisi o non ne usciremo mai”, perché “uscire dalla crisi non significa dare una pennellata di vernice alle situazioni attuali perché sembrino più giuste. Uscire dalla crisi significa cambiare, e il vero cambiamento lo fanno tutti, e tutti insieme”.
Ma, rileva Francesco, nella società e nell’economia sta venendo meno il principio di sussidiarietà e così la gente è sempre meno ascoltata. “Oggi, questa mancanza di rispetto del principio di sussidiarietà si è diffusa come un virus. Pensiamo alle grandi misure di aiuti finanziari attuate dagli Stati. Si ascoltano di più le grandi compagnie finanziarie – ha sottolineato – anziché la gente o coloro che muovono l’economia reale. Si ascoltano di più le multinazionali che i movimenti sociali. Si ascoltano più i potenti che i deboli e questo non è il cammino umano, non è il cammino che ci ha insegnato Gesù”.
Parole chiare, si potrebbe dire. Un forte richiamo di metodo politico. In questa linea non può mancare una riflessione sulle grandi scelte attuate in Italia negli ultimi anni, scelte che si sono accentuate nelle risposte che sono state date alla crisi economica determinata dalla pandemia.
Guardiamole in concreto: le misure più importanti non sono state misure “sociali”, ma interventi destinati ai singoli e di semplice contenuto monetario. Ha iniziato il governo Renzi con gli 80 euro che avrebbero dovuto servire, e non sono serviti, a rilanciare economia e consumi. Ha proseguito il governo giallo-verde con il reddito di cittadinanza, in parte un giusto aiuto alla povertà, ma anche un forte incentivo al lavoro nero e all’evasione fiscale, e poi con quota 100, una pensione anticipata con un notevole costo per i conti pubblici, un costo per di più prolungato nel tempo.
E intanto venivano ridotti i posti letto negli ospedali, venivano rinviati i fondi per l’ammodernamento delle scuole, venivano limitati gli interventi per la famiglia come gli asili nido. E veniva aumentato il debito pubblico sulle spalle dei giovani. La ricerca del bene individuale prendeva il sopravvento sul bene comune.
E anche le misure contro la crisi hanno risposto a due criteri: sono state gestite direttamente dallo Stato o dalle sue agenzie (come l’Inps) e hanno avuto un contenuto quasi unicamente monetario.
L’unica piccola eccezione, che conferma la regola, è stata costituita dai buoni alimentari distribuiti dai Comuni nelle settimane più drammatiche per la pandemia.
Forse qualcuno avrebbe dovuto spiegare ai governanti che la povertà non è solo la mancanza di soldi, ma è anche, e in molti casi soprattutto, la solitudine, l’emarginazione, la malattia, quella miseria culturale che si ha, per esempio, quando si guarda tanto e solo la televisione.
Lo statalismo si è espresso anche con gli interventi per le aziende in crisi, basti pensare ad Alitalia con una logica completamente al di fuori delle regole di mercato che significano efficienza e competitività.
Il paradosso è che i grandi critici del capitalismo, cioè sull’economia fondata sui capitali, non hanno altre ricette che fondare sui soldi i loro interventi economici. I soldi sono importanti, ma devono rimanere uno strumento al servizio delle persone e della società.
Molto meglio la sussidiarietà, come ricorda il Papa, “per uscire migliori da una crisi”. Molto meglio una società capace di coesione sociale che singoli individui con qualche soldo in più, ma senza un orizzonte di relazioni e di valori.