“Pensando alle norme di legge adottate di recente in Ucraina, mi sorge un timore per la libertà di chi prega, perché chi prega veramente prega sempre per tutti. Non si commette il male perché si prega. Se qualcuno commette un male contro il suo popolo, sarà colpevole per questo, ma non può avere commesso il male perché ha pregato. E allora si lasci pregare chi vuole pregare in quella che considera la sua Chiesa. Per favore, non sia abolita direttamente o indirettamente nessuna Chiesa cristiana. le Chiese non si toccano!”



Così Papa Francesco si è espresso, al termine dell’Angelus della scorsa domenica, in riferimento all’approvazione da parte del parlamento ucraino di un disegno di legge che mette al bando la Chiesa ortodossa ucraina in comunione con il Patriarcato di Mosca al fine di tutelare maggiormente gli interessi nazionali. Tale decisione politica si inserisce nella già complessa vicenda che da anni alimenta di scontri e divisione non solo in Ucraina, con la presenza di due Chiese ortodosse in conflitto tra loro, ma in tutto il mondo ortodosso, fino alla scisma del 2018 e alla rottura dei rapporti tra Mosca e Costantinopoli.



Perché allora questo intervento del Santo Padre? È solo uno schieramento tattico, una manovra diplomatica o nasconde ragioni più profonde?

Le parole di Francesco trovano giustificazione nel valore che la Chiesa cattolica lungo i secoli, sin dai tempi delle persecuzioni dei primi cristiani, ha attribuito alla libertà religiosa, solennemente sancito dal Concilio Vaticano II con la dichiarazione Dignitatis humanae, dove leggiamo che “la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa. Il contenuto di una tale libertà è che gli esseri umani devono essere immuni dalla coercizione da parte dei singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potere umano, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità ad essa: privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata” (Dignitatis humanae n.2).



Il diritto alla libertà religiosa è intimamente connesso alla dignità della persona, anzi, proprio la coscienza che l’uomo sia in libero rapporto con l’Assoluto costituisce la radice e il fondamento del valore di ognuno e quindi di tutti gli altri diritti.

La libertà religiosa, continua la dichiarazione conciliare, non vale solo nel rapporto tra singoli o tra religioni e individui, ma deve essere riconosciuta da ogni ordinamento pubblico: “la potestà civile, il cui fine proprio è di attuare il bene comune temporale, deve certamente rispettare e favorire la vita religiosa dei cittadini, però evade dal campo della sua competenza se presume di dirigere o di impedire gli atti religiosi” (Dignitatis humanae n.3).

Forse questo richiamo alla libertà religiosa è troppo generico oppure ingenuo e semplicistico? Il Santo Padre certamente non nega l’esistenza di fatiche e di problemi, tanto da non escludere eventuali condanne di chi fosse colpevole di gesti criminali volti minare la pubblica sicurezza, ma la soluzione non può passare attraverso la negazione della libertà religiosa.

Certo, forse si sarebbe tentati di pensare che sarebbe tutto più comodo e semplice se ci fosse coincidenza tra Stato e Chiesa, tra vita religiosa e Nazione, o almeno una qualche forma di controllo statale su ogni attività religiosa, ma questa è la tentazione del filetismo. Il filetismo è proprio quella dottrina, condannata nel 1872 dalla Chiesa ortodossa, secondo cui l’appartenenza a un popolo implicherebbe necessariamente l’appartenenza a una stessa Chiesa e l’obbedienza a uno stesso patriarca, riducendo così la Chiesa a una sorta di dipartimento religioso dello Stato.

Contro questa tentazione il Papa ha richiamato più volte anche l’ortodossia russa e ora vuole impedire che vi ricada, per reazione, il mondo ucraino. Per quanto problematico possa essere il rapporto tra lo Stato e la Chiesa, la soluzione a queste difficoltà non può provenire da una mossa politica, tantomeno da un divieto.

Francesco non vuole solo difendere un diritto fondamentale, ma indicare anche una possibile via per superare la violenza del conflitto.

Infatti, la libertà religiosa, secondo l’insegnamento della Chiesa, non è un diritto all’errore, ma richiede l’impegno alla ricerca della verità, poiché “tutti gli esseri umani, in quanto sono persone, sono dalla loro stessa natura e per obbligo morale tenuti a cercare la verità, in primo luogo quella concernente la religione” (Dignitatis humanae n.2) e mostra la necessità dell’educazione e del dialogo dal momento che “la verità, però, va cercata in modo rispondente alla dignità della persona umana e alla sua natura sociale: e cioè con una ricerca condotta liberamente, con l’aiuto dell’insegnamento o dell’educazione, per mezzo dello scambio e del dialogo con cui, allo scopo di aiutarsi vicendevolmente nella ricerca,  gli uni rivelano agli altri la verità che hanno scoperta o che ritengono di avere scoperta” (Dignitatis humanae n.3).

Tutto quello che il diritto alla libertà religiosa implica, dialogo, educazione, ricerca della verità, fiducia nella capacità della ragione umana e nel valore della libertà, apertura della persona alla trascendenza costituisce la condizione imprescindibile perché si possa aprire una strada di superamento della violenza e di riconciliazione, smontando alla radice ogni possibile causa di un conflitto.

L’accorato appello di Francesco diventa così già un contributo alla costruzione della pace, richiamare la libertà religiosa significa riaffermare proprio la dignità di ogni persona, il desiderio di incontrarla e di dialogare con essa, di cercare insieme la verità che si oppone a ogni violenza.

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