Anche se papa Francesco ha reso i passaggi di testimone ai ruoli apicali dell’organizzazione vaticana una prassi quinquennale, e il cardinal Ladaria di anni ne ha fatti 6 semplicemente per accompagnare la riforma che ha trasformato tutte le congregazioni d’Oltretevere in dicasteri, l’avvento di Victor Manuel Fernández alla guida della Dottrina della fede – nel posto che fu di Joseph Ratzinger – non può essere derubricato ad un normale avvicendamento.



In qualche modo fino a ieri l’ombra del prefetto della Dottrina della fede per antonomasia – quel Benedetto che riposava nel monastero vaticano con l’evocativo nome di “papa emerito” – non aveva permesso al suo successore di entrare con piena libertà in quel campo, anche solo per rivisitarlo. Certamente nel 2017 Francesco era arrivato perfino a congedare il cardinale Müller, scelto in quel ruolo da Ratzinger ancora regnante, per sostituirlo con il gesuita Ladaria, ma il senno di poi ha confermato che nell’ottica del pontefice argentino quella conclusione inusuale dell’incarico (per secoli i prefetti dell’ex sant’Uffizio erano rimasti in carica fino alla morte) era solo la prima di un nuovo stile e di un nuovo modo di intendere gli incarichi dentro le mura leonine.



Anche la riforma della curia non aveva scalfito più di tanto quel fortino che, come un monumento, evocava a tutti la presenza del cardinale bavarese, uomo di fiducia di Wojtyła, e che pertanto sembrava intoccabile. La morte di Benedetto e la conclusione del mandato di Ladaria hanno dunque aperto uno scenario nuovo, dove oggi si può fare quel che fino a ieri era indelicato fare.

Ovviamente non si tratta di niente di dirompente, solo di una legittima ridefinizione del ruolo del dicastero, ridefinizione che arriva – e questo è invece molto interessante – non con un documento dedicato, ma con una lettera del papa in persona che accompagna la nomina del nuovo prefetto. Fernández è un argentino, uomo fidato di Francesco, spesso definito “teologo del papa”, che ha partecipato alla Conferenza della Chiesa latino-americana ad Aparecida del 2007 in cui l’allora vescovo di Buenos Aires Bergoglio lottava con lui per una Chiesa non autoreferenziale, una Chiesa in uscita.



I due hanno maturato insieme una visione per cui è l’esercizio del potere all’interno della Chiesa ciò che impedisce alla Chiesa stessa di accogliere la chiamata dello Spirito al cambiamento. Per questo la madre di tutte le riforme è quella conversione pastorale che porta la Chiesa dall’esercizio del potere all’esercizio del servizio. Il cuore della lettera è tutto qui: ridefinire il servizio che il dicastero per la dottrina della fede deve svolgere in seno alla comunità cristiana.

I termini che Francesco individua sono estremamente semplici: il compito di Fernández, nel suo nuovo ruolo, è quello di aiutare la Chiesa a riconnettere le parole che pronuncia con l’esperienza umana che esse esprimono. È come se Bergoglio avesse ben presente lo iato che c’è tra quello che la Chiesa dice e l’esperienza umana che gli uomini del XXI secolo vivono. Senza riconnettere le parole con l’esperienza, non solo sarà impossibile raggiungere gli uomini di questo secolo, ma sarà impossibile per la Chiesa dialogare con qualunque altra cultura, rendendo sterile e arido il proprio patrimonio di saggezza e di comprensione della realtà.

Il compito del dicastero vaticano è quindi quello di assicurarsi che l’esperienza della Chiesa sia sempre pensata, riflessa, espressa. In altre parole, giudicata. Altrimenti la fede resterà sempre un fatto emozionale individuale, un moto soggettivistico incapace di interfacciarsi con chicchessia. L’esperienza ha bisogno di parole e queste parole non devono essere selezionate solo all’interno di una determinata tradizione filosofica o teologica, ma possono fiorire in qualunque pensiero, senza aver timore preconcetto per l’ortodossia o pregiudizio verso la libertà di ricerca dei teologi.

È questo un passaggio nuovo e di discontinuità rispetto al passato: viene del tutto meno il ruolo di censura esercitato da quella che fu l’Inquisizione, per far spazio ad un ruolo di promozione della ricerca e di supporto al dialogo tra le diverse ermeneutiche della fede.

Si riafferma ancora una volta, nel magistero decennale di Francesco, la pluralità nell’unità, assioma che deriva dall’immagine stessa della trinità cristiana e che diventa, nelle parole del papa, metro di giudizio e di azione. Questo non significa che la libertà proposta nella lettera sia un pensare quel che si vuole e come si vuole: Bergoglio fissa un criterio al pensiero che è quello della ragionevolezza. Troppe volte, lungo i secoli, il pensiero teologico è rimasto ostaggio di una logica che rendeva il discorso “corretto e pulito”, ma che cozzava con la vita. La ragionevolezza, invece, non è solo logica formale, non è solo adeguata perizia dialettica, ma è capacità di rendere ragione della realtà.

Il messaggio papale di rimbrotto alla teologia da tavolino non è qui lontano dal discorso di Ratisbona di Benedetto XVI, quando l’allora Pontefice stigmatizzò la violenza in nome della fede, argomentando come fosse impossibile pensare a Dio in opposizione alla ragione. Nel cristianesimo la ragione è un’energia di conoscenza incarnata, che tiene insieme logos e pathos, e che conferisce al discorso teologico una profonda aderenza con la vita, aiutando a distinguere le questioni principali da quelle secondarie. Senza questa ragionevolezza vissuta, la teologia resta in balia di ripercussioni, di conseguenze, di ornamenti che oscurano il cuore della fede.

In chiusura della lettera il papa riassegna al dicastero un compito di revisione e di controllo degli atti della Chiesa, con il dichiarato intento di verificare che le parole con cui la comunità cristiana si esprime siano adeguate all’esperienza e all’humus della tradizione. A ben vedere in questo messaggio inusuale c’è più di una rivoluzione, c’è un’intera chiave interpretativa di un pontificato e di un magistero. Quasi l’inconsapevole testimonianza di un’eredità. Di un lascito da non disperdere.

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