Tra i tantissimi che poteva scegliersi come compagni d’avventura (uno come lui avrebbe l’imbarazzo della scelta), ha scelto Ettore ed Enea. Ben prima di Gesù Cristo, dunque, Papa Francesco è andato a spulciare tra le pagine più classiche che esistano: quasi un tentativo ecumenico di voler parlare all’uomo d’oggi, chiunque esso sia. Sceglie Enea per quel suo gesto di salvezza nei confronti del vecchio padre Anchise e del figliolo Ascanio: mentre la città è in fiamme – “Il mondo d’oggi è in fiamme!” sembra dire Francesco – invece di gridare “Governo ladro!”, l’eroe omerico si carica il padre paralizzato in spalla e prende il figlio per mano: “Così dobbiamo andare avanti: camminare nel presente in fiamme tenendo in mano in futuro. Insieme: passato, presente e futuro”.



Eppoi Ettore che, prima di affrontare Achille, incontra la moglie e il figlio: “Allora Ettore si toglie l’elmo e lo lascia a terra, prende in braccio il figlio e lo solleva alla sua altezza, e solo allora gli parla”. Parla alla suocera perché capisca la nuora: “Per dialogare occorre disarmarsi e allineare lo sguardo”. Due storie vecchie decrepite: peccato, però, che il giornale di oggi a mezzogiorno sia già vecchio, ma l’Iliade e l’Eneide non abbiano ancora finito di raccontare il mistero ivi trattenuto. Il Vangelo, gioco forza, s’allinea a questi due: non è di tutte le parole la capacità di afferrare il cuore e la mente dell’uomo di ogni tempo, di ogni epoca e di parlargli “in diretta”. La teologia – che della parola di Dio vorrebbe essere ancella e traduttrice – ricordi, dunque, di non essere mai la scarpa ma soltanto i lacci: “È il Signore che la ispira e la sostiene” dice il Papa.



L’occasione è il Dies Academicus alla Pontificia Università Gregoriana di Roma, l’antico ateneo erede del Collegio Romano fondato da Ignazio di Loyola, il padre dei gesuiti. Una bottega di santi, beati, geni: 27 santi hanno studiato su questi banchi, 57 beati e ben 16 papi. Più il sottoscritto: quest’ultima aggiunta non aumenta assolutamente il prestigio dell’ateneo, ma dice la gratitudine immensa di chi scrive. Qui la sfida è sempre rimasta quella degli inizi: che il sapere possa diventare sapore, “un luogo in cui la missione si dovrebbe esprimere mettendoci il cuore”.

Fare teologia è parlare di Dio all’uomo che cerca Dio, quel Dio che sembra cacciato fuori dall’orizzonte dell’interesse umano ma che, mistero della fede, rimane per l’uomo l’ospite sgradito più gradito in circolazione. Un uomo che va prima ascoltato, per non dare risposte teologicamente perfette a domande che nessuno si pone. Finendo con il farci ridere dietro dalla gente: “Bisogna avere il coraggio di camminare nel fango e sporcarsi le mani – continua il Papa –. Generare sapienze che non possono nascere da idee astratte concepite soltanto a tavolino ma che guardino e sentano i travagli della storia concreta”. È il risvolto intellettuale di quella prossimità di cui Francesco si è fatto schietto portavoce dagli inizi del pontificato e che, alla Gregoriana, rimette al centro citando san John Henry Newman, san Tommaso Moro, san Francesco Saverio, san Basilio e cervelli geniali laici come l’inglese Shakespeare e il russo Dostoevskij.



Supportato dal genio di costoro, Francesco invoca la reintroduzione della poesia, dell’ironia e dell’amore perché la teologia smetta di essere la maestrina che tutto sa e ritorni a indossare le vesti di un’umile e appassionata compagna di viaggio: “Gli studenti hanno bisogno di scoprire la forza della fantasia, del vedere germinare l’ispirazione, di prendere contatto con le proprie emozioni, di sapere esprimere i sentimenti”. Parole, spesso, tabù dentro le aule museali del sapere.

Non saranno gli algoritmi, insomma, a spiegarci il senso dell’esistenza: sul “perché” e sul “per chi” vivere resterà ancora il cuore dell’uomo a poter dare una spiegazione che appaia un vestito su misura, non un pensiero prêt-à-porter, di quelli che per parlare a tutti non riescono a parlare a nessuno: “Ma vi siete posti la domanda su dove state andando e perché fate le cose che state realizzando?” insiste il Papa argentino. La lunghezza d’onda è la stessa di due sue confratelli geniali: padre von Balthasar e padre Rahner. Se Balthasar rinfacciava alla teologia di essere diventata incomprensibile quando ha smesso d’inginocchiarsi, Rahner le rimproverava l’incapacità di fare poesia. Non a caso, prima di uscire, il Papa è entrato nella cappella dell’università: è stata la sintesi della sua lectio, di una teologia in ginocchio.

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