Una lettera scritta da un Papa da un letto d’ospedale non andrebbe letta con le lenti mediatiche della (geo)politica ma solo con gli occhi di un credente (cristiano, cattolico) o di un “uomo di buona volontà” di ogni fede o pure senza. Ma anche un’enciclica fondativa della Chiesa contemporanea come la “Pacem in terris” – l’ultima di Papa Giovanni XXIII – fu scritta sul campo ancora caldo della crisi di Cuba.
E Francesco ha inviato la sua lettera al Corriere della Sera alla vigilia della cruciale telefonata fra il presidente americano Donald Trump e quello russo Vladimir Putin, che ha partorito un passo in avanti verso il cessate il fuoco in Ucraina. Da domani, intanto, il Consiglio Ue è chiamato a dare via libera al piano ReArm Europe.
Il Papa è – come sempre – di una chiarezza dura come quella di un cristallo grezzo. La guerra è “assurda”, senza mai giustificazioni. La Terra va “disarmata”, esattamente come esortava Papa Giovanni dopo aver voluto e aperto il Concilio.
E la “diplomazia” deve ritrovare il suo ruolo, da tre anni zittito dai missili. E lo dice un Papa che non intende dimettersi, come ha assicurato il cardinale Pietro Parolin uscendo dal Policlinico Gemelli, evidentemente dopo aver condiviso con il Pontefice la lettera.
Lo sforzo di un pastore mai in disarmo è condensato in un appello che ha la prontezza e la concisione di un post su un social, ma riesce a includere anche la denuncia forte dell’informazione fake, che inquina le coscienze. E queste ultime – a cominciare da quelle dei governanti, anche in Italia – paiono in effetti come minimo confuse su guerre e armi: spesso spregiudicate, talora dettate da interessi opposti a un grande disarmo.
È uno scenario non incomprensibile in una situazione globale “disruptiva” da cinque anni, fra pandemie e conflitti. Ma non è una giustificazione; soprattutto non è una premessa per ritrovare la “sapienza del cuore” di Papa Giovanni, che Francesco ha voluto canonizzare un anno dopo la sua elezione allo stesso soglio.
Benché ieri abbia ricevuto applausi scroscianti in Senato, il Papa non ha certo scritto la sua lettera guardando alla politica italiana. Che però è stata investita dalle parole del Pontefice alla vigilia di una prova cruciale in Parlamento proprio su “guerra o pace”, su “sviluppo militare o civile”. E nelle Camere gli schieramenti sono apparsi incerti e frastagliati anche a ridosso delle comunicazioni della premier al Senato.
Giorgia Meloni ha portato a Palazzo Madama il compromesso elaborato dalla maggioranza di governo, che ha cancellato la parola “riarmo” dalla mozione di voto (favorevole) che l’Italia esprimerà in Consiglio Ue (l’aveva in effetti già suggerito per il piano l’etichetta “Defend Europe”).
Il voto appare coerente con la lealtà alla Ue da parte di un Paese fondatore, oggi rappresentato al vertice della Commissione dal vicepresidente Raffaele Fitto (la cui delega ai fondi di coesione, ha avvertito Meloni, deve rimanere intatta).
L’approccio positivo su ReArm coglie d’altronde in un piano militar/industriale ricalcato sul Rapporto Draghi una proiezione necessaria del Recovery Plan post-Covid, come stimolo economico e acceleratore competitivo.
Meloni ha d’altronde ribadito la contrarietà italiana all’invio di truppe in Ucraina dopo il possibile cessate il fuoco: certamente non all’interno di iniziative non coordinate fra Ue e Usa nella cornice Nato esistente e in assenza di un’attenzione prioritaria alla diplomazia della Casa Bianca.
Per questo la premier ha continuato anche ieri a mostrarsi fredda verso il tentativo franco-britannico dei “volenterosi”: che Palazzo Chigi considera chiaramente una fonte di divisione e disarticolazione immotivate nel perimetro Ue, in quello Nato, dell’Occidente più vasto.
L’iniziativa di Parigi e Londra guarda a un improvvisato ombrello nucleare dei due Paesi sull’intera Europa e a un “esercito europeo” da collaudare immediatamente in Ucraina. Il tutto in una dinamica tendenziale di disallineamento epocale della Ue rispetto agli Usa, a favore della Cina.
La linea militarista filo-francese in chiave anti-americana è stata apertamente ripresa ieri da Enrico Letta – ex premier e leader del Pd al voto del 2022 – in un’intervista da Bruxelles al Sole 24 Ore. Negli ultimi giorni i fari mediatici si sono in effetti accesi soprattutto sull’opposizione di centrosinistra e sulle sue visibili conflittualità interne sul fronte geopolitico.
La segretaria del Pd Elly Schlein, infatti, è uscita da una lunga vaghezza sulla crisi globale, dicendosi contraria a ReArm. Schlein – fra l’altro europarlamentare – ha dovuto affrontare proprio a Strasburgo il sì al piano da parte di metà della delegazione dem: una svolta che è parsa tuttavia innestata in una crescente dialettica tutta nazionale e tutta interna al partito.
Qui sono proprio i cattodem – sotto la guida del “grande vecchio” Romano Prodi e lo sguardo attento del presidente Sergio Mattarella – a sollecitare da tempo Schlein a un’opposizione più attiva, ormai al giro di boa della legislatura e all’inizio di una lunga campagna elettorale. Di qui anche la convocazione – attraverso Repubblica – del girotondo arcobaleno di Roma, sabato scorso.
La piazza era stata originariamente appellata “in nome dell’Europa”, di nuovo chiamata al ruolo di “difensore democratico” contro una presunta deriva italiana verso l’America trumpiana.
Ma appena dopo il proclama di Michele Serra, la Ue ha annunciato ReArm; e a Bruxelles è appena stata riconfermata quella stessa Ursula von der Leyen che fu l’icona del ribaltone italiano del 2019. Non ha quindi sorpreso la “babele” di Piazza del Popolo (l’epiteto è del Corriere della Sera, destinatario il giorno dopo della lettera del Papa).
Qui Schlein ha comunque riconfermato la sua linea, con un buon successo di folla, prevalentemente sul lato sinistro del Pd. Ciò che verosimilmente l’ha agevolata nella costruzione di una posizione condivisa del Nazareno alla vigilia del doppio passaggio, italiano ed europeo.
La mediazione interna ai dem – secondo le indiscrezioni – approderà alla richiesta di una “radicale revisione” di ReArm: senza dunque respingerlo a priori, ma certamente ribilanciando le esigenze della nuova difesa europea rispetto ai mantra storici (per la Ue e per le sinistra) della transizione green e del welfare.
I cattolici (dem o altri) si sono invece tenuti infine in disparte da Piazza del Popolo.
L’unica eccezione è stata rappresentata da Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, ex ministro tecno-europeista con Mario Monti, peraltro a disagio, sul palco e sui media, nel misurare distinguo fra “difesa” e “riarmo” in Europa (fra Meloni e Macron); fra un’astratta “pace giusta” e la concreta tregua di 30 giorni che però è Trump che sta negoziando con Putin (dopo tre anni di guerra alimentata dagli Usa dem e mai veramente contrastata da alcuna Onu, né grande né piccola).
Prodi, dal canto suo, non ha fatto inizialmente mancare a Repubblica l’endorsement di un ex presidente della Commissione Ue, ma in extremis sull’evento ha corretto il tiro sulla prima pagina del Fatto Quotidiano, braccio mediatico di M5s e di “Giuseppi” Conte.
Il premier trasformista del 2019 (strumento di Mattarella e Prodi nel ribaltone con l’appoggio di Macron e di Trump, dopo aver appoggiato l’ascesa di “Ursula” nei panni di Conte 1) è nettamente contro ReArm e da sempre scettico sulla guerra Nato in Ucraina sostenuta dal presidente cattolico Joe Biden.
Prodi – un tempo “amerikano” e oggi filocinese – è d’altronde preoccupato che siano Schlein e Conte a saldare un cartello elettorale di sinistra, contro cui invece i cattodem stanno apprestando al centro del Pd una corrente – o addirittura una nuova forza scissionista – testando le possibili leadership di Carlo Maria Ruffini o di Paolo Gentiloni. Non è escluso che sia tema di discussione riservata fra Mattarella (per cui la Santa Sede è da sempre il primo riferimento) e Meloni, nel rituale pranzo della vigilia del Consiglio Ue.
P.S.: ieri Draghi è intervenuto al Parlamento italiano, presentando nuovamente il suo Rapporto sulla competitività Ue, divenuto nel frattempo l’intelaiatura politico-intellettuale di ReArm. L’ex presidente della Bce ed ex premier italiano (fra l’altro membro della Pontificia Accademia delle Scienze sociali su nomina di Papa Francesco) ha difeso in termini netti il riarmo Ue, motivandolo fra l’altro con gli orientamenti neo-isolazionisti degli Usa di Trump.
Draghi ha ovviamente ribadito in modo perentorio l’invito alla Ue ad emettere direttamente eurobond e si è spinto parecchio in là anche nell’appoggiare un sistema di difesa europeo “con comando unico”: in questo mostrando attenzione al ballon d’essai sull’ombrello nucleare anglo-francese lanciato al recente recente summit di Londra (Draghi ha vissuto a lungo nella City come banchiere della Goldman Sachs).
L’ipotesi di un nuovo “euro-comando unico” – che non sarebbe più quello della Nato a Bruxelles, ma prevedibilmente condiviso fra Parigi e Londra – sembra avere una potenziale ricaduta specifica nella governance militare italiana.
A Roma – capitale di una repubblica parlamentare – ogni responsabilità è del governo in carica, con una catena di comando che fa capo alla Difesa e all’articolazione dei suoi comandi. Tuttavia quella di “capo delle Forze armate”, nella Carta, è una delle attribuzioni del Presidente della Repubblica, il quale la esercita attraverso un “Consiglio supremo di difesa”.
È anche sulla base di questo assetto che Mattarella – di per sé “pacifista” – durante una recente visita di Stato a Tokyo non ha avuto cautele nell’intervenire nel merito del possibile spiegamento di truppe italiane in Ucraina.
Ora dietro la suggestione di Draghi non è difficile intravvedere un governo italiano a sovranità progressivamente limitata sulle proprie forze armate all’interno di una nuova “post-Nato formato Ue”.
Il Quirinale, dal canto suo, difficilmente perderebbe il suo ruolo di alta sorveglianza su eserciti e strategie, mantenendolo a livello europeo. Di fatto potrebbe ricoprire lo stesso ruolo – eminentemente politico – attualmente riservato dalla costituzione semipresidenzialista francese a Macron: legato a Mattarella da un “Trattato del Quirinale” firmato da Draghi.
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