Non è raro che un Pontefice abbia la statura morale giusta per indicare alla comunità degli Stati come procedere su territori normativi loro propri. Dai tempi di Benedetto XV, il Papa che avversò la prima guerra mondiale persino contro i socialisti, al successore di Pietro riesce di rivendicare, ancorché evangelicamente, quei termini e quei principi che gli Stati hanno messo a fondamento della loro autonomia dalla sfera spirituale e che continuamente essi stessi minacciano. Anche Giovanni Paolo II e Benedetto XVI ebbero un’agenda fitta di note e di osservazioni.



Qui non mette conto di individuare se e quanto siano stati conseguenti; sappiamo, piuttosto, che alcune loro considerazioni erano fondatissime e disattese. Giovanni Paolo II patrocinò nei suoi viaggi pastorali la causa del cosiddetto “terzo mondo” e fu lo slancio, intorno al Giubileo del 2000, per una discussione laica, seria e profonda sul debito pubblico dei Paesi in via di sviluppo: ipoteca del colonialismo alla fine delle colonie.



Benedetto XVI, in profetica solitudine, indicò i rischi di un’economia puramente mercatoria nella densissima enciclica Caritas in Veritate. Nonostante questi illustri predecessori, che andrebbero almeno per i temi ricordati completamente rivalutati dall’opinione pubblica tutta, quanto affermato da Papa Francesco in occasione del XX Congresso dell’Associazione internazionale di diritto penale ha i caratteri sostanziali dell’unicità e dell’eccezionalità. Quell’intervento è, anzi, un fenomenale strumento di riflessione per chi abbia davvero a cuore le sorti del diritto, e in particolar modo del diritto penale e di quello processuale.



Il Pontefice ha giustamente considerato come il diritto penale non sia riuscito sempre ad affermare una più ampia sicurezza sociale. Strumentalmente manovrato da legislatori in cerca di consenso, ha finito all’opposto per incentivare le sensazioni di insicurezza che minano le relazioni interpersonali e che non giovano complessivamente all’etica di una civiltà e all’economia di una nazione. C’è stato, ad avviso di Francesco, un “idealismo” penale che ha idolatrato a tal punto l’esclusivismo della potestà punitiva da scaricarla spesso contro le fasce più deboli della popolazione, fomentando uno stupido sentimento di sospetto sociale che non ha favorito la cooperazione intersoggettiva posta a base della propria azione dal magistero del post-Concilio. Non sono le frustate sulla schiena dell’indagato a garantire la pace esteriore ed interiore della vittima; non è minacciare di radere al suolo l’invasore che protegge il confine; o, per dirla con Buber, non è il recinto ciò che meglio difende ciò che vi sta dentro.

L’eccesso di legislazione penale di questi anni ha, addirittura, ad avviso del Pontefice e di quella parte di scienza penalistica che riesce a sintonizzarsi sulle sue istanze, infittito e infoltito i processi, ha seminato rancori interclassisti e spesso razziali, ha fatto credere che bastasse punire (nel mucchio e talora in assenza di qualsiasi motivo) per risolvere i problemi. Francesco non ignora la necessarietà della presenza del diritto penale in questo quadro delle relazioni sociali, ma descrive con esattezza quanto la politica criminale e le strategie della punitività abbiano sbagliato bersaglio. E il Papa ha detto con chiarezza che sui reati economici si sono fatti veri e propri errori di miopia legislativa, per cui un capitalismo predatorio e di rapina ha visto le proprie peggiori condotte trattate con ammende e carezze e, invece, le modeste lesioni alla proprietà sono diventate la base di una caccia alle streghe spietata che ha gabbato tutti, vittime in testa.

Francesco ha invitato a riconsiderare il senso della grazia e della giustizia e a pianificare un tessuto legale idoneo a prevenire le condizioni materiali dell’evenienza del reato. Non ha incitato a dichiarare i nemici secondo il vento dei comizi elettorali. Con un apprezzabile senso tecnico, che in verità non sempre sul piano strettamente specialistico questo Pontificato aveva saputo evidenziare (nel diritto matrimoniale, nel riformismo curiale, nel contrasto all’illegalità), il Papa si è speso in parole importanti a favore della tutela giuridica dell’ambiente, che è strettamente connessa a una visione del genere umano e delle possibilità concrete di una sua sana sopravvivenza. Anche la tutela della natura segna un mutamento di paradigma dalla giustizia per vendetta – quella che emette il bando penale per aizzare gli animi, quella contro cui si scaglia William Langland presentando il suo Robin Hood – alla giustizia per “restaurazione”, la giustizia che nel dialogo trova il seme per dare al processo una possibilità di verità, un contenuto di equità e una prospettiva di redenzione. Una giustizia che Francesco trova dalla radice della Scrittura e che però il giurista laico non può rifiutarsi di ricevere e scoprire sul ramo del contenzioso e del conflitto.

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