Il grande pericolo nella Chiesa, come dappertutto, è quello di deporre delle uova ma dimenticarsi poi di covarle: “Tra dire e fare” c’è di mezzo il mare, dice la gente nella sua semplicità. È per questo che il Dio cristiano, quando s’intestardì di vedere salvo il mondo, non si sedette sul ciglio dell’eternità per annunciare la sua Novella, ma decise di farsi carne: storia, presenza, vicinanza. Perché non è sufficiente dire una cosa – ad esempio “scusa” – ma è necessario riempire quella parola di un significato, di un senso che la renda vera. Nulla, più del corpo, della nostra presenza fisica riesce a dire questo nella pienezza.
Il “mi manchi” scritto per messaggio non potrà mai valere il farsi trovare sotto casa, in carne e ossa. Il povero, soprattutto, l’unico dogma che riesce a capire è quello della carne. Una parola, se viene capita, è perché chi la pronuncia prima si premura di riempirla.
Papa Francesco, con il suo viaggio in Canada, non si è accontentato di dir delle parole a distanza: “Scusa, chiedo perdono, mi vergogno per quello che v’è stato fatto nel passato”. Ha voluto che le parole deposte il giorno in cui gli indios sono venuti a fargli visita a Roma, venissero, poi, covate: è per questo che, con il ginocchio malaticcio che si ritrova, ha viaggiato oltreoceano a bordo della sua carrozzina. È l’immagine di un comandante ferito ma non sconfitto, di un eroe tragico ma non rassegnato, di un vecchio cantore dalla voce ancora giovane.
Ha parlato, certo: parlano molto i Papi quando viaggiano per Dio. I suoi discorsi, però, sono soltanto il cinquanta per cento del suo magistero: la parte rimanente, l’altro cinquanta, è la gestualità, il loro esserci a prescindere, questa vicinanza assoluta che è diventata il vero tratto caratteristico di questo pontificato, “senza distanza di sicurezza”. È per questo che le sue parole non si degradano una volta proferite: perché il suo corpo – poggiato al bastone, seduto in carrozzina, con indosso le vesti tipiche di una tribù – le sigilla con la presenza. Diventano le parole stesse di Dio: perché Dio è in ciascuno di noi, ma non c’è nessuno in cui Iddio sia tanto vicino come nella figura del Papa (qualunque sia il nome che porti). Il Papa diventa la sua abitazione vivente: Et habitavit in nobis.
Spazientisce gli interpreti un magistero siffatto, di gesti e di parole. Ammiro in lui il fatto che sappia dire il terribile lasciando, tuttavia, una porta aperta alla meraviglia: nulla è (ancora) mai perduto del tutto. Per questo, qualunque sia la terra che lui visita, è a tutto il mondo che il Papa parla: sceglie, di volta in volta, un microcosmo (questa volta il Canada) per cercare d’illuminare le leggi di Dio che governano il mondo intero. Il motivo è semplice, è per questo che il Papa va a trovare il mondo fuori dal Vaticano: è importante, di tanto in tanto, sentirsi colpiti dal vivo, cioè vedersi come uno viene visto da chi non sa ancora nulla di noi. Ed è altrettanto importante che, parlando in terza persona degli indigeni, le parole si diffondano in qualunque posto, dove le discriminazioni, le violenze e la barbarie sono state scelte, magari, per annunciare il Vangelo in modo disonesto e approssimativo. Ed è incredibile che, con le parole e i gesti, il Papa riesca ad infondere la stupefacente sensazione di riuscire a procurarsi una quiete per pensare in mezzo a tantissima gente. Insegnando al mondo lo stesso, se vorrà.
Il corpo di Pietro è fragile, acciaccato, si sta consumando come tutti i corpi si consumano. È d’una prestanza assoluta, però: tutti son capaci d’andare a far visita a qualcuno nel pieno delle forze, con il fisico che ti assiste, quando il tuo aspetto è seducente. A tutte piace uscire di casa con i tacchi e i vestiti di lino. È nei giorni di malattia, però, che una visita acquista maggiore verità: e la fragilità, dalla quale il mondo tanto rifugge, riempie di significato la parola pronunciata, facendola diventare una voce pungente, carezzevole. Una voce alquanto ferita: che impedisce alla parola di risuonare ovvia come se restasse sempre uguale.
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