KINSHASA (Congo) – La preghiera silenziosa ad alta quota mentre la distesa arida e ingannevole del Sahara si srotolava sotto i suoi occhi. Francesco era in volo verso il cuore dell’Africa ferita, quel Congo che una volta si chiamava Zaire e che ha cambiato nome tante di quelle volte, dal dottor Livingston in giù, che non si tiene più il conto.
Eppure insieme al dolore per la delusione inferta ai tanti che lo aspettavano nell’inferno di Goma c’era pure quello per i disperati che il tempo bizzoso e maligno (la cosiddetta migrazione climatica), e più spesso, troppo più spesso, milizie dall’incerta identità, costringono a fuggire a piedi scalzi sulla sabbia incandescente.
I migranti sono sempre nel suo cuore, soprattutto ora che è in una terra talmente bella che a nessuno verrebbe mai in mente di lasciarla, e così violenta da respingere ogni suo figlio. Quella terra che con i suoi conflitti, che alibi facili passano per tribali, impone l’esodo come unica via di salvezza. Che poi salvezza non c’è, ha ricordato Francesco agli oltre settanta giornalisti che lo accompagnavano, perché i lager libici non la regalano a nessuno. Dolore, prima di affrontare altri conflitti.
“Giù le mani dall’Africa”, rimarrà del primo discorso pubblico pronunciato dal pontefice nel Palais de la Nation, davanti al presidente Tshisekedi e a un migliaio di dignitari e politici: ma non c’è solo quel grido rabbioso, quasi di sfida. C’è dolore, e ancora dolore, per un corpo, immenso e ferito, il cui diaframma, come ha definito Francesco la Repubblica Democratica del Congo, è pestato da secoli di sfruttamento, migrazioni forzate, conflitti. Come un pugile rimasto senza respiro, colpito dalla violenza di un pugno allo stomaco. Ha scelto le tinte forti, il Papa, nei giardini umidi di zanzare e nubi gravide di pioggia del palazzo.
Un discorso, il suo, dove le denunce si sono alternate a iniezioni di speranza: un incipit col botto per il 40esimo viaggio internazionale nel Paese dalle ricchezze enormi, dal sottosuolo straripante di diamanti, cobalto e coltan, più preziosi dell’uranio e dell’oro messi insieme, bisognoso di riconciliazione e pace, soprattutto nella regione orientale, sotto il vulcano, Nyiragongo, che ogni tanto sputa fuoco e lava.
“La violenza e l’odio non abbiano più posto nel cuore e sulle labbra di nessuno perché sono sentimenti antiumani e anticristiani”. Non basta a Francesco scagliarsi contro il “colonialismo economico” che, dopo quello ipocrita e farabutto di Leopoldo II, re del Belgio, inchioda alle proprie responsabilità chi ha depredato il Paese, cedendo al veleno dell’avidità che fa chiudere gli occhi. “Giù le mani dalla Repubblica democratica del Congo, giù le mani dall’Africa”.
Basta, urla il Papa, non si può più “soffocare l’Africa, non è una miniera da sfruttare o un suolo da saccheggiare”. L’Africa sono le centinaia di migliaia di persone che si sono riversate urlando lungo Boulevard Lumumba per un abbraccio istantaneo, sono le donne colorate che danzavano e ballavano al passaggio di macchine blindate, sono i ragazzi arrampicati su ogni lamiera sufficientemente alta per superare il mare di folla.
Per questo popolo gioioso e vitale, Francesco ha invocato una diplomazia dell’uomo per l’uomo, scuotendo una comunità internazionale quasi rassegnata alla violenza che divora il Paese e incoraggiando processi di riconciliazione, che devono trovare proprio nelle religioni gli alleati della lotta alla povertà e alle malattie, ai tribalismi e alle contrapposizioni.
Francesco, scatenato, non ha avuto paura di invocare elezioni libere davanti ad una classe politica che non brilla per limpidezza, mettendosi ancora una volta dalla parte di chi vuole fare dell’Africa un laboratorio di nuove democrazie e non l’arena per scontri sanguinari. Era il suo primo discorso e ci ha messo tanto, anzi tantissimo. Quasi un’enciclica, se qualcuno si prenderà la briga di svilupparlo.
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