KINSHASA (Congo) – “Mi chiamo Ladislas Kambale Kombi. Sono nato a Eringeti il 15 luglio 2006. Sono un agricoltore di professione. Sono il secondo della mia famiglia. Mio fratello maggiore è stato ucciso in circostanze che ancora oggi non conosciamo.

Mio padre è stato ucciso in mia presenza, a Ingwe, verso Kikungu, nel Territorio di Beni, da uomini in pantaloni da addestramento e camicie militari. Dal mio nascondiglio, ho seguito il modo in cui lo hanno fatto a pezzi, poi la sua testa mozzata è stata messa in un cesto. Infine, se ne andarono con la mamma. L’hanno rapita. Siamo rimasti orfani, io e le mie due sorelline. La mamma non è più tornata fino ad oggi. Non sappiamo cosa ne abbiano fatto”. Un ragazzo, poco più che bambino, che ha in mano un machete simile a quello che gli ha portato via il viso amato del padre. Potrebbe spaccarci il mondo invece lo mette ai piedi della croce.



“Sono Bijoux Mukumbi Kamala. Vengo da Walikale. Ho 17 anni. Ho iniziato il calvario della sofferenza nel 2020. Un giorno stavamo andando a prendere l’acqua al fiume. Era a Musenge, in uno dei villaggi del territorio di Walikale. Era il 2020. Durante il tragitto abbiamo incontrato alcuni ribelli. Ci hanno portato nella foresta. Ognuno dei ribelli scelse chi voleva. Il comandante mi voleva. Mi ha violentato come un animale. È stata una sofferenza atroce. Sono rimasta praticamente come la sua donna. Mi violentava più volte al giorno, quando voleva, per diverse ore. E questo è andato avanti per 19 mesi, 1 anno e 7 mesi. Era inutile urlare, perché nessuno poteva sentirmi o venire in mio soccorso. Poi sono scappata”. Lei è diventata donna come non avrebbe voluto mai. Ci ha messo un po’ a non odiare. Ma anche lei ha lo strumento della tortura, come gli antichi martiri. È una stuoia, dove la gettava il suo carnefice quando la possedeva per fiaccare ogni briciola di dignità.



“Sono un sopravvissuto a un attacco al campo di sfollati di Bule, nel villaggio di Bahema Badjere, nel territorio di Djugu, nella provincia di Ituri. Questo campo è conosciuto come ‘Plaine Savo’. L’attacco è avvenuto nella notte del 1° febbraio 2022 da parte di un gruppo armato, che ha ucciso 63 persone, tra cui 24 donne e 17 bambini. Ho visto la ferocia: persone tagliate come carne di macelleria, donne sventrate, uomini decapitati. Viviamo in campi per sfollati senza speranza di tornare a casa, perché le uccisioni, le distruzioni, i saccheggi, gli stupri, lo spostamento delle popolazioni, i rapimenti, le molestie, insomma, sembra che l’esecuzione di un piano di sterminio, di annientamento fisico, morale e spirituale, continui ogni giorno”. Don Guy-Robert Mandro Deholo è un prete. Non ha più le dita di una mano. Gliele hanno mozzate. Lui per mestiere deve perdonare e insegnare a farlo. Non sempre è all’altezza. Ma sotto la croce porta un martello. Il segno della sua continua conversione.



“Sono Aimée e parlo a nome di Emelda M’karhungulu di Bugobe, Groupement Cirunga, Parrocchia di Kabare, nell’arcidiocesi di Bukavu, a sud-ovest di quella grande città. Emelda mi sta accanto ma non parla francese. Leggo la traduzione francese della sua testimonianza in swahili. ‘I ribelli avevano fatto un’incursione nel nostro villaggio di Bugobe; era un venerdì sera del 2005. Hanno fatto irruzione nel villaggio, prendendo in ostaggio tutti quelli che potevano, deportando tutti quelli che trovavano, facendo loro portare le cose che erano state saccheggiate. Durante il tragitto, hanno ucciso molti uomini con proiettili o coltelli. Le donne invece le hanno portate al parco di Kahuzi-Biega. All’epoca avevo 16 anni. Sono stata tenuta come schiava sessuale e abusata per tre mesi. Ogni giorno, da cinque a dieci uomini abusavano di ciascuna di noi. Ci hanno fatto mangiare la pasta di mais e la carne degli uomini uccisi. A volte mescolavano le teste delle persone con la carne degli animali. Questo era il nostro cibo quotidiano. Chi si rifiutava di mangiarlo veniva fatto a pezzi e gli altri erano costretti a mangiarlo. Vivevamo nudi perché non scappassimo. Ero una di quelle che obbedivano, fino al giorno in cui, per grazia, riuscii a fuggire quando ci mandarono a prendere l’acqua dal fiume”. Emelda non parla, lo fa qualcuno per lei. Ma porta sotto la croce i pantaloni che gli uomini si toglievano quando entravano nella capanna, quella divisa che significava odore, violenza e umiliazione. Quell’uniforme che le fa ancora paura quando cammina per strada.

Solo lacrime e silenzio: davanti alla violenza disumana raccontata con straordinario coraggio dalle vittime, Papa Francesco è rimasto scioccato. Difficile guardare gli occhi di un bambino che ha subito l’abisso del male. Difficile capire gli stupri ripetuti, la pulizia etnica, il terrore di chi convive con la paura. Francesco lo ha fatto, nel pomeriggio di Kinshasa, ricevendo in Nunziatura un gruppo di vittime della violenza nell’est del Paese, quella regione in cui vige la legge di chi ha l’arma più potente, il Kivu, campo di battaglia di oltre 150 gruppi di milizie che tengono in ostaggio l’intero Paese.

Ha portato la carezza di Dio. Ha baciato le mani e i piedi mozzati. Ha offerto il balsamo della consolazione. E ha detto “basta”. Quello che dovremmo fare anche noi, invece di girare la testa altrove, perché troppo lontano è il dolore, troppo animalesca la sofferenza, troppo tribali per i nostri perbenismi borghesi le storie che si raccontano.

Eppure dietro quei gesti di perdono, quelle semplici parole di riconciliazione, dopo il faticosissimo lavoro di elaborazione della rabbia, c’è il miracolo dell’amore, lo stupefacente Mistero dell’umano. E noi dovremmo solo abbassare gli occhi, per pudore e vergogna.

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