Oggi si chiude il triduo pasquale dell’Iraq. Il viaggio di Francesco – “pellegrino penitente” – è stato un tempo in cui si è fatta memoria della Croce, c’è stata la discesa agli inferi, e la Resurrezione, se non altro un suo presagio, è apparso sui volti pacificati di questo popolo sventurato, forse perché ha avuto troppo da Dio e dalla storia alle origini dell’umanità. Sventurato? Disgraziato per il sangue versato, la furia dello straniero, la guerra intestina tra componenti religiose e culturali diverse (soprattutto tra sciiti e sunniti, tra sunniti di Baghdad e sunniti curdi, poi di fazioni fondamentaliste tipo Al Qaida e poi Isis, contro il milione di cristiani). Ma pieno di grazia per i martiri, il cui peso benedetto nella storia del mondo non si fermerà a questa antica terra di Babilonia.



Corrono qui il Tigri e l’Eufrate, i fiumi di cui parla la Genesi. Forse il Paradiso terrestre è stato illustrato dallo scrittore ispirato da Dio guardando le pianure ricche di fiori. Io stesso nel 1991, arrivato a Baghdad subito dopo la disastrosa guerra da cui è iniziato uno dei tempi più rovinosi della storia (la caduta del Muro di Berlino ha dischiuso le porte a un nuovo abisso di violenza), ho potuto cogliere una rosa bellissima in un giardino, profuma ancora.



Troppi sono i significati e i segmenti che meriterebbero un racconto esteso. Ci vorrebbe un’edizione contemporanea degli Atti degli Apostoli. In sintesi è accaduto quello che ho detto. È ridicolo ridurre questa visita a momento politico, eppure è stata grande politica; neppure è stato prevalentemente la prosecuzione del dialogo interreligioso con l’islam, e certo è stato questo, non una faccenda teorica, ma l’incontro tra due esperienze umane antiche e fresche, lo si vede nelle foto che mostrano i volti sereni e profondi di Francesco e Al Sistani, la maggiore autorità sciita dell’Iraq, ma non solo; per me – ripeto: per me – è stato sopratutto la conferma della fede del resto d’Israele da parte del Vicario di Cristo, perché Abramo è morto, dice il Vangelo di oggi, e il compimento dell’Alleanza è in questo rimasuglio vituperato di poveri cristiani, che il Papa ha difeso strenuamente in questi giorni, e ne sarà per sempre benedetto.



Bisogna mettere al centro loro. Come gli ebrei di Auschwitz e i contadini ortodossi dei Gulag sono il punto da cui va guardato e giudicato il Novecento, io credo che i 48 martiri della Cattedrale di Baghdad dedicata alla Madonna del Perpetuo Soccorso siano la prima e simbolica fila di chi ha dato se stesso unendosi al sacrificio di Cristo mitragliato durante la messa da una pattuglia di carnefici in odio al Signore, anche se gridavano in arabo (Allah) il nome di Dio.

L’immensa schiera dei martiri di questo terzo millennio, senza soluzione di continuità con i loro confratelli del secolo scorso, sono quelli che la visita di Pietro-Francesco ha riconosciuto. Per vedersi confermare nella fede i fedeli da millenni si recano a Roma sulla tomba di Pietro. Pietro per confermare la propria fede si è chinato su questa terra e ha contemplato le pareti ancora chiazzate di sangue fuggito da corpi di ragazzini e preti il 31 ottobre 2010.

Il Papa non ha accusato nessuno, non ha urlato indignazione, ha chiesto perdono a nome dell’intera umanità cattiva e indifferente. Non ha impugnato la memoria dei perseguitati per averne un risarcimento morale. Lo sanno tutti, lo sa anche lui, che al tempo le autorità sciite, che avevano preso il posto dei sunniti di Saddam, avevano – peraltro con il consenso americano – spinto i cattolici dei vari riti (la meravigliosa molteplicità dei lapislazzuli al collo della Vergine qui onorata con colori squillanti) alla fuga, proteggendo quasi per finta chi rimaneva. Questa è una storia che andrà raccontata. Ma non erano questi giorni il momento.

Il Papa ha riconosciuto i martiri, si è inchinato a nome nostro davanti a loro. A nome loro ha compiuto gesti fraterni con le varie componenti etnico-religiose del popolo iracheno, con le autorità politiche e i notabili. Non è in Abramo che qui nacque e partì, da Ur dei Caldei, verso la terra promessa, che può venire alcuna giustificazione alla violenza tra fratelli in nome di Dio. Ciascun uomo e donna, ogni fede, non può essere omologata a una religione universale, a una media abramitica convenzionale, concordata tra i capi religiosi. Al Sistani, che sempre ha difeso i cristiani, è in piena sintonia con questa visione. In questo quadro è sbagliato parlare di minoranza cristiana. Sono meno di numero, ma per minoranza si intende qualcuno da includere dentro una benevola e un po’ paternalistica tolleranza. I cristiani sono coessenziali all’identità nazionale dell’Iraq, perseguitarne le varie comunità, sacrificarle, ghettizzarle quasi fossero meno cittadini, significa indurli alla diaspora, è come tagliare un polmone o mezzo cuore a un organismo.

Questo è stato il tempo pasquale dell’Iraq.

P.S. Pochi hanno spiegato l’importanza del Grande Ayatollah Al Sistani. È la massima autorità per la maggioranza dei 200 milioni di sciiti nel mondo, una minoranza tra gli 1,8 miliardi di musulmani. Il suo unico rivale religioso è il leader supremo iraniano, il grande ayatollah Ali Khamenei. Al Sistani è di nazionalità iraniana, ma da decenni garante dell’indipendenza dell’Iraq e gestisce una scuola teologica che sostiene il ritiro dei religiosi dalla politica – hanno il solo compito di “consigliare” – a differenza della scuola di Qom in Iran. “La scuola teologica di Nadjaf è più laica di quella di Qom, più religiosa”, ricorda il cardinale spagnolo Miguel Angel Ayuso, presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso. Nadjaf, aggiunge, “dà più peso all’aspetto sociale”.
Il Grande Ayatollah ha anche usato la sua enorme influenza per far cadere il governo che nel 2019 per mesi è stato contestato da giovani manifestanti stanchi di vedere il proprio Paese sprofondare nella corruzione.

A 91 anni Al Sistani non è mai apparso in pubblico. Per capire la sua statura basta leggere quanto ha riferito il comunicato stampa dell’ufficio del Grande Ayatollah come contenuto del suo colloquio con il Papa. Evoca le “grandi sfide” da affrontare in questa regione, tra cui “l’oppressione, la povertà, la persecuzione religiosa e intellettuale, la soppressione delle libertà fondamentali e l’assenza di giustizia sociale”. Ma anche “guerre, atti di violenza, blocchi economici, deportazione di popolazioni, nelle nostre regioni, ma anche soprattutto del popolo palestinese nei territori occupati”.

Secondo il comunicato, l’Ayatollah ha anche sottolineato il ruolo delle “grandi religioni” nell’aiutare “le grandi potenze a rifiutare il linguaggio della guerra” e nel promuovere “il rispetto reciproco tra i seguaci delle diverse religioni”.

Al Sistani supplica affinché “i cittadini cristiani possano vivere come tutti gli iracheni, in pace e sicurezza nei loro pieni diritti costituzionali”, sottolineando il “ruolo che la Marjayaa ha svolto per proteggerli” negli ultimi anni quando “i terroristi hanno compiuto atti criminali” nel Paese. La Marjayaa è sia la scuola teologica guidata da Al Sistani sia il potente movimento sociale e politico iracheno che ne deriva. Per una volta abbiamo citato più le parole di un ayatollah che quelle del Papa. Ma siamo certi che Francesco – come per altro ha fatto – ringrazierebbe. E noi, nascondendoci indegnamente, dietro i martiri ringraziamo il buon Dio della testimonianza).

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