Impressiona la pertinenza del biblico sacrificio di Isacco con quanto, proprio in questi giorni, si va consumando. Papa Francesco, umile pellegrino nella terra di Abramo, riporta in primo piano le radici antiche della nostra storia: “Senza Abramo, se non ci fosse stato Abramo, non ci saremmo noi qui, adesso” (cfr. L. Giussani, Carisma e storia, in Tracce, Parola tra noi, gennaio 2001).



Il genio di Caravaggio ripropone dunque, in questo dipinto, la contemporaneità drammatica di quell’evento nel quale misteriosamente confluiscono due libertà, la divina e l’umana.

Da una parte Abramo che con la sinistra stringe il collo di Isacco, vittima designata per il sacrificio, e con la destra impugna senza indugio il coltello; dall’altra l’angelo che afferra il polso del vecchio patriarca per arrestarne la mossa mentre, puntando l’indice della sinistra, indica l’ariete – all’estrema destra del dipinto – come il vero olocausto da sacrificare.



S’intrecciano nella loro icastica duplicità, questi gesti, mentre il peso del destino che su di lui incombe, muove Isacco in un urlo lacerante e scomposto.

Balzano dalla tela i protagonisti scolpiti dentro la luce stessa che ne inonda violentemente la calda plasticità dei tratti.

Acquista così spessore il morbido panneggio che segna la tunica ocra di Abramo e il manto rosso con cui si è cinto i lombi. Quasi fisicamente ci si comunica il fremito ribelle di Isacco che, nel disperato tentativo di sottrarsi alla morsa inesorabile della mano paterna, torce l’intero busto ostentando così, ad una luce quasi siderale, la spalla nuda e uno scorcio del petto ansimante. Contrasta, su questo freddo nitore, la lama affilata del coltello che Abramo stringe mentre si volge, stupito ed incerto, verso chi vuole ostacolarlo nell’atto del suo obbedire.



Mentre s’infittiscono le rughe sottili sulla fronte vetusta e i folti sopraccigli si inarcano lievemente come nel modo di un’interrogazione, si addolcisce di un’aura calda e rossastra il volto sorpreso del nobile patriarca. La sua vecchiezza calma e solenne s’impone dinanzi all’agile flessuosità dell’angelo la cui figura sembra quasi piombare nel dipinto, apparizione fugace quanto reale.

Ḕ qui che la rapida linearità dei suoi tratti, la perfetta e contenuta armonia delle sue forme viene esaltata da una invisibile fonte di luce.

A tale irruente fulgore fa da contrappunto, sul lato opposto della tela, una smorzata penombra da cui affiora, docile e mansueto, il muso di un ariete, vittima sacrificale al posto di Isacco.

Si spegne così, nell’ombra indistinta di un paesaggio crepuscolare, l’episodio biblico.

Ma – è ancora Giussani a interrogarsi – che cosa ci insegna la vicenda di Abramo? Che l’io è vocazione, scelta come preferenza. Per cui, dal giorno di quella chiamata, l’io si capisce come avvenimento nella storia. […] Solo dall’interno di questa storia si sviluppa la concezione cristiana dell’io e della realtà: una rivoluzione nel modo di guardare il mondo”.

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