Il presidente del Kazakhistan (ma in kazako si dovrebbe scrivere Qazaqstan) ha dato la notizia che Papa Francesco ha deciso di effettuare, a metà settembre, una visita pastorale nel suo paese. Annuncio poi confermato dalla sala stampa del Vaticano, secondo la prassi. Sembrava infatti difficile che il presidente kazako si fosse così esposto nel farsi promotore di una tale fake news…



Per la verità la cosa non sembra molto interessante per i molti cronisti preoccupati di non farsi sfuggire l’ultima novità sulla guerra in Ucraina. Eppure il viaggio del Papa è una notizia molto importante, che, tra l’altro, ha molti più legami di quanto si pensi con la crisi attuale.

C’è chi, come me, ricorda un significativo precedente storico, quando San Giovanni Paolo II, non curandosi del parere contrario di molti, anche in Vaticano, decise di andare in Kazakhstan, 11 giorni dopo l’attentato alle Torri Gemelle di New York. Allora, a qualcuno, sembrava inopportuno che il Papa andasse, in quel momento, in un paese sovietico e, per di più, in gran parte musulmano, quasi confinante con l’Afghanistan e considerato dal Patriarcato di Mosca sotto la propria giurisdizione canonica.



Ricordo con emozione quella visita a cui ebbi l’onore di partecipare direttamente sia nella preparazione dei discorsi (con 11 citazioni da me proposte in lingua kazaka), sia con una collaborazione stretta con le autorità locali per gli aspetti organizzativi. Ricordo con emozione anche l’accoglienza di un popolo nel quale i cattolici sono una piccola minoranza, un popolo stupito di essere testimone privilegiato di un evento di pace che pochi si aspettavano.

Oggi un altro evento simile si sta preparando, inshallahAncora una volta un nuovo Papa, così diverso e così simile da quello precedente (e del suo immediato successore), va nella steppa, prendendo anche lo spunto di un grande congresso interreligioso per mostrare che la pace è possibile. Perché nel Qazaqstan ci sono tanti problemi e anche questioni politiche e sociali, come hanno dimostrato gli eventi di qualche mese fa, ma c’è la possibilità della pace.



C’è un popolo che conta più di 100 etnie diverse, una terra che è stata teatro delle più grandi deportazioni staliniane, che sta faticosamente cercando una propria strada verso la democrazia e che, nonostante tutto, vive in pace. E se ci sono tensioni non sono tra cristiani e musulmani, tra kazaki e russi, ma tra quelli che queste divisioni vorrebbero esasperarle e chi, invece, preferisce la strada di una convivenza pacifica.

C’è una parola “zhol”, strada, che ha un posto molto importante nella cultura dei nomadi e di chi è stato mandato, spesso contro il proprio volere, a vivere da loro. Nella lingua kazaka non c’è un unico termine che indichi la parola “speranza”: ce ne sono tre e tutti hanno a che fare col tema della strada. C’è la parola “damiè”, che significa speranza nel senso di qualcosa di bello, di gustoso. È il pregustare un bene che si attende all’arrivo di un faticoso cammino. C’è il termine “medeu”, che significa speranza nel senso che c’è qualcuno su cui contare durante il cammino. C’è poi la parola “senim”, che indica la speranza come persuasione, fiducia, quindi fede, che la strada porti a un punto di arrivo che non sia solo bello e gustoso, ma che, in qualche modo, sia anche definitivo.

Di questa speranza ha bisogno non solo l’Ucraina, ma anche il mondo intero. E di questa speranza, presumibilmente, andrà a parlare, testimoniandolo anche col suo viaggio, Papa Francesco. Così, non solo la piccola e a volte travagliata Chiesa cattolica del Qazaqstan sarà confortata, ma anche tutti noi.

Buon viaggio, Papa Francesco (e non dimenticare la maglia di lana, perché, credi a me, da quelle parti, in settembre, può già fare un po’ freddo).

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