NUR-SULTAN – Il silenzio e la preghiera del cuore, poi l’immagine potente di uomini e donne intorno ad un gigantesco anello: visi accanto a visi, corpi che si sfiorano, sguardi che si incrociano. È quanto rimane del momento inaugurale del VII Congresso dei leader delle religioni mondiali e tradizionali, aperto ieri da Francesco nel palazzo dell’Indipendenza di Nur Sultan, Kazakistan. Quasi una lectio, quella del pontefice, su religione e modernità, in cui “figli e figlie dello stesso cielo”, come ha chiosato, si sono ritrovati insieme di fronte al mistero dell’infinito che “sovrasta e attira”. Gli 81 rappresentanti di fedi diverse, provenienti da 50 Paesi, hanno condiviso la loro condizione di creature, in cammino verso la medesima meta celeste. Proprio la creaturalità è la condizione che secondo il pontefice permette di far nascere una fraternità reale. La sua è stata un’appassionata difesa delle religioni, indispensabili per dare risposte alla sete di assoluto, ai bisogni e le domande ultime dell’uomo. Qualcosa che permane e salva, quando non è inquinato o corroso da fondamentalismi ed estremismi.



In molti annuivano, concentrati in quella che è sembrata una cavalcata nel deserto destabilizzante della società moderna impugnando il vessillo della coscienza catturata dal Mistero. Le religioni non sono problemi od ostacoli, come certa critica anticlericale vorrebbe, ma parte della soluzione per una convivenza più armoniosa. Delle religioni c’è bisogno per rispondere alla sete di pace del mondo.



Ma per fare questo hanno bisogno di libertà, condizione essenziale anche per uno sviluppo davvero umano e integrale. Non solo libertà di culto, ma di rendere pubblica testimonianza della propria fede. Insomma stanare dal privato quella sfera che una mentalità laicista e atea ha sempre considerato “imbarazzante”. Parole pesanti in un Paese dove intere città sono cresciute intorno a campi di prigionia, riempite di anime coerenti con la propria fede, di martiri della coscienza, impregnate di spiritualità, caparbie nel coltivare il senso del reale.

Nell’era post-Covid, che ha fatto scoprire in maniera acuta fragilità e solitudini, non bisogna dilapidare la domanda di solidarietà avvertita, ma guardare uniti alle sfide imposte dalla pandemia: prendersi cura della vulnerabilità, innanzitutto diventare artigiani di comunione, facendosi prossimi agli ultimi, gli emarginati, i dimenticati. Riscoprire poi il compito sacro dell’accoglienza, con lo sguardo capace di riconoscere il volto del fratello in ogni essere umano scartato. Custodire il Creato, tutelare la casa comune maltrattata, inquinata e distrutta. E soprattutto inseguire con ogni mezzo la pace. “Dio è pace e conduce sempre alla pace, mai alla guerra”, ha tuonato ancora una volta il Papa, non si può profanare, né strumentalizzare. “Il sacro – ha aggiunto – non sia puntello del potere”.



Non la forza ma i negoziati, non le minacce ma il dialogo, non gli armamenti ma l’istruzione. Dialogo e incontro, invocati infine in maniera straziante, al termine della celebrazione eucaristica nell’area dell’Expo Ground dove ha abbracciato per la prima volta la piccolissima comunità cattolica. Con il cuore ancora catturato dalla tragedia ucraina, Francesco ha mostrato di saper guardare alla storia con profezia, mostrando come le nuove scintille che rischiano di incendiare la regione caucasica, gli scontri al confine tra Armenia e Azerbaijan, non siano altro che il frutto di una escalation di tensioni, l’inevitabile epilogo di chi pensa che ogni diatriba debba essere risolta con le armi. La guerra chiama la guerra.

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