Da qualche tempo mi è stato chiesto di scrivere qualche contributo, prima sui fatti legati alla guerra in Ucraina, poi anche sul prossimo viaggio del Papa in Kazakistan (13-15 settembre).

Proprio il lavoro di preparazione di questo viaggio, che per me è stato quello di raccogliere testimonianze interessanti della cultura kazaka e spunti per possibili temi da trattare da parte del Santo Padre, mi ha stimolato ad una riflessione che vorrei condividere.



Da sempre io, che per anni ho dovuto occuparmi di questioni di linguistica, sono convinto che la parola, le parole, sono ogni volta un tentativo di comunicare dei fatti, cose accadute od esigenze percepite, e che solo in parte riescono a sostituire l’esperienza personale che si ha di quel fatto o quella esigenza che possono essere trasmesse anche dopo molto tempo.



Nelle lingue turco-mongole, che forse non tutti i lettori conoscono, ci sono due modi per esprimere ciò che è accaduto nel passato. Il primo indica che qualcosa è accaduto nel passato, ma che tutto è finito lì. Poi c’è un altro modo di parlare del passato come qualcosa che è accaduto e che continua ad essere in qualche modo presente, determinando quello che chiamiamo tradizione.

A questo proposito vorrei raccontarvi un fatto, appunto, che accadde nel 2006. Papa Benedetto XVI a Pasqua aveva l’abitudine di rivolgere l’annuncio pasquale, “Gesù è risorto, veramente risorto” in molte lingue. Quell’anno chiese di poter aggiungere alle altre lingue anche quella kazaka. Così, come da prassi, si rivolse alla nunziatura. Il buon nunzio si rivolse non so a chi, ma il martedì della Settimana Santa fu preso da uno scrupolo e mi convocò in nunziatura proponendomi la frase prescelta. Purtroppo quella frase, usando la prima modalità del passato, significava che Gesù è risorto, ma tutto è finito lì. Dove l’idea di Resurrezione è resa, e non c’erano altre parole adeguate, come semplice tornare in vita (come successe a Lazzaro).



L’aspetto problematico era piuttosto in quell’idea che tutto fosse finito lì, cosa che non rende affatto la nostra fede nella Resurrezione di Gesù Cristo. Solo in un secondo tempo il nunzio, basito, mi disse che quella era la frase che papa Ratzinger doveva pronunciare a Pasqua. Detto fatto, l’errore fu immediatamente corretto e così il papa fu salvato dai dubbi dei kazaki sulla sua fede. Proprio lui, ex prefetto della Congregazione per la dottrina della fede!

Ora spero che, per evitare equivoci durante il prossimo viaggio in Kazakistan, risparmieranno a papa Francesco il rischio di passare come il primo papa eretico della storia, lui che, mi sembra, non ha molta dimestichezza con le lingue straniere…

Ma comunque parlerà, dovrà parlare, perché se già il gesto di affrontare questo lungo e per lui faticoso viaggio dice molto della passione di Cristo per quel popolo, e per tutti quelli del mondo, sarà pure necessario anche a parole “rendere ragione” della fede che lo muove. E qualunque cosa dirà, oltre che di buoni interpreti, avrà bisogno di buoni comunicatori dell’esperienza cristiana che viene a proporre. Sì, proprio a prescindere dalla lingua che si parla, il contenuto del cristianesimo è sempre stato comunicato attraverso un’esperienza di vita che ha trasmesso qualcosa che le parole di per sé non possono esprimere fino in fondo.

Per quanto ne so, e ne so, credo proprio che lì già ci siano persone in grado di svolgere questo compito.

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