NUR-SULTAN – È terminata con quattro ore di vantaggio la faticosa giornata di Papa Francesco in Kazakhstan. L’arrivo nel cuore futuristico della steppa, la moderna e immaginifica Nur Sultan, dopo una cavalcata aerea sull’Europa, scelta obbligata per evitare i cieli infuocati di Ucraina e Russia. Così il Papa indomito ha scelto con determinazione e caparbietà di portare a termine il progetto di un viaggio che lo avvicina più che mai a Kiev e Mosca, quasi equidistanti dalla capitale kazaka, la vecchia Astana ribattezzata per omaggiare il padre-padrone del Paese, quel Nazarbayev da cui i kazaki si sono recentemente emancipati.
Sull’aereo Francesco ha mostrato tutta la sua fragilità: gli 86 anni a cui si avvicina trascinandosi il ginocchio riottoso. Nel salutare i giornalisti a bordo dell’aereo, rito consolidato a cui non ha voluto mancare, ha dovuto abbandonare la certezza della sedia a rotelle per un bastone robusto che lo ha condotto attraverso gli stretti corridoi dell’Airbus 330. Il passo stentato, le mani che arpionavano i sedili, puntellando il corpo pesante di dolore, il volto strattonato dalle fitte che attraversavano la gamba destra eppure trasformato dal sorriso nell’incontro con storie, richieste, preghiere, abbracci o persino domande maliziose sulla contemporaneità di presenza in Kazakistan di Xi Jinping, il presidente di quella Repubblica Popolare Cinese che sembra come un gambero avvicinarsi di un passo e poi allontanarsi di due.
Di questa improvvisa fragilità si sono fatti carico pietosi gli ospiti kazaki, pronti a prendersi cura di Francesco, anticipando i suoi cedimenti, offrendo poltrone e sedie a rotelle, adeguandosi al ritmo delle ruote, come ha fatto il presidente Kassym-Jomart Tokayev, delfino dell’ex funzionario del regime sovietico Nazarbayev, accogliendo con ogni premura il “messaggero di pace”, pellegrino nell’Asia centrale per partecipare al settimo Congresso dei leader delle religioni mondiali e tradizionali.
Lo stesso presidente lo ha scortato da Ak Orda, il quartier generale foderato di marmi bianchi, sede della presidenza kazaka, al Qazaq Concert Hall dove il pontefice ha fatto il suo primo discorso, diventando il megafono del grido dei tanti che implorano la pace. Perché non bisogna poi giraci intorno: la visita di Francesco in quello che ha definito un laboratorio multiculturale e multi religioso in Asia centrale è motivata dall’ostinazione nel continuare a chiamare le cose con il loro nome. Così l’operazione militare in Ucraina ancora una volta viene definita la “folle e tragica guerra” originata da “un’invasione”, solo la punta di un macigno in cui inciampa la coscienza occidentale, il moltiplicarsi di scontri e minacce in molte zone del pianeta.
Nel paese “dell’incontro”, ponte tra Europa ed Asia, anello di congiunzione tra Oriente ed Occidente, Francesco ha voluto subito lanciare le sfide che riguardano non solo il Kazakistan ma il mondo intero, tenuto in ostaggio dall’ingiustizia e dalla violenza. Così ha parlato di democrazia, parola rinfrescata di vernice nell’Italia prossima al voto, di buona politica fatta di ascolto della gente e di risposte a legittimi bisogni, di contrasto alla corruzione. Di come uno stile politico attento alle fasce più deboli della popolazione, giovani, lavoratori o disabili, sia la risposta più efficace ad estremismi, personalismi e populismi. Ma soprattutto ancora una volta Papa Francesco ha chiesto di allargare l’impegno diplomatico a favore del dialogo e dell’incontro. Perché il problema di qualcuno è oggi problema di tutti. E il pianeta del post-Covid questo avrebbe dovuto capirlo da un pezzo.
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