ANTANANARIVO (Madagascar) — Fuori il cielo macchiato di bianco, le casette a schiera colorate, gli striscioni con il faccione di Francesco e la scritta Tongasoa, benvenuto, variopinta. E poi il vento gelido dell’altipiano che spazzava via gli stracci buttati addosso alla rinfusa da un’umanità varia, composta e incredula. Dentro ottomila volti, ottomila sguardi, ottomila cuori. L’auditorium Manantenasoa, di Akamasoa, fremeva di tenerezza. Solo bambini e giovanissimi, una rappresentanza dei 14mila che ogni anno arrivano nella città dell’amicizia fondata da padre Pedro Opeka, missionario sloveno-argentino, catapultato dalla “fine del mondo” nel cuore dell’isola rossa.
Per capire chi è e cosa ha fatto quest’uomo bisognava essere dentro il salone infestato da bandierine e sorrisi quando ha fatto il suo ingresso per assicurarsi che tutto fosse a posto, negli ultimi concitati minuti prima dell’arrivo del pontefice. Improvvisamente è esploso di urla, sventolii e applausi, l’auditorium. Sembrava fosse entrato Gesù Cristo. E forse era proprio così. Perché per quei piccoli padre Pedro è Gesù. Che li ha accolti, fatti mangiare, gli ha dato un tetto vero sulla testa, finestre con battenti e vetri, un bagno al posto delle fogne a cielo aperto. Gesù che li ha amati così tanto da creare un villaggio di pietra per le loro famiglie, insegnando ordine e disciplina, mestieri e professioni. Il Maestro che gli ha riconsegnato l’infanzia, fatta di scuola, dignità e sogni.
Padre Pedro è un santo. Ormai lo avrete capito. Forse non di quelli canonici, ma vero. Uno che sa di che pasta è fatta la Carità, che per inciso sa di buono quando è capace di creare accanto ad una discarica un mondo dove riabita la speranza. C’è una vecchia cava di pietra, dove uomini e donne, come nel medioevo, spaccano pietra con le mani e il piccone, per costruire la propria umanissima cattedrale.
È il luogo dove si reinventa il futuro: si celebrano messe e si scortica il granito per edificare. Non solo case, ma anche scuole, stadi, laboratori, dispensari. Padre Pedro, con il suo barbone bianco, i suoi 71 anni, e la sua benedetta concretezza ha costretto, in virtù della vecchia amicizia e della comune nazionalità, Francesco ad arrampicarsi sulla collina. A lasciarsi spolpare da tutti quei bambini, facendosi inondare di tenerezza e gioia allo stato vergine. È entrato ed è stato sommerso dalle voci fresche, dal soffio devoto di bandierine brandite come spade, dalla musica travolgente che aveva già fatto danzare seguito, giornalisti e vescovi. Un bombardamento emotivo, difficile da controllare. Persino per un vecchio Papa, che ha girato mezzo mondo. Per questo forse, quando è salito sul palco, circondato da tutto quell’imprevisto e totalmente gratuito amore, si è aggrappato a Padre Pedro, in un abbraccio totale.
Prima di salutare la folla innocente, Francesco ha ricordato che Opaka quando era suo alunno alla facoltà di teologia, nel ’68, non era un granché come studente. Gli piaceva lavorare. Oggi possiamo dire grazie a Dio. Forse non avremmo potuto sentire cantare quella bellissima canzone argentina, “Dio è qui, ne sono certo come l’aria che respiro”, da ottomila anime. E sorprenderci a pensare che è a volte abbiamo bisogno di sentircelo ricordare. La povertà non è una fatalità, ha ricordato Francesco, ieri. Nel miracoloso mondo di Akamasoa, le parole di Francesco sono comprovate.