ULAANBAATAR (Mongolia) – Si è preparato al viaggio nel cuore dell’Asia, a un passo dalla agognata Pechino, ascoltando la musica di Alexander Porfiryevich Borodin, compositore russo che, a suo dire, più di ogni altro ha saputo interpretare il silenzio, popolato di spiriti, che agita la terra mongola. Già sull’Airbus 330 della ITA che lo portava ad Ulaan Baatar, Francesco mostrava il piglio del viaggiatore curioso, pronto alla meraviglia, conquistato dai contrasti siderali di un Paese tra i più vasti del mondo eppure tra i meno densamente popolati. Ai giornalisti a bordo del volo papale, mentre si accingeva ad attraversare due continenti, ha plasticamente fatto respirare la Mongolia dai cieli azzurri che rincorrono le colline verdi, puntellate dalle Ger, le tradizioni abitazioni delle popolazioni nomadi che Alberto Moravia in uno dei suoi reportage dalle steppe aveva paragonato a delle torte nuziali, per la circolarità dell’impianto foderato di feltro bianco, scudo sicuro contro il freddo gelido che soffia dal deserto dei Gobi e che spesso, non solo l’inverno, fa scendere il termometro sotto i 35 gradi. “La Mongolia si capisce con i sensi” aveva detto.



Un popolo piccolo in una terra grande. Un Paese che sembra non finire mai, che conosce solo il blu della volta celeste e non quello infido del mare, un territorio dai lunghi silenzi, appunto, che avvolgono uomini e animali, foreste e monti, deserti e corsi arabescati d’acqua. Una terra in cui l’anima cerca sempre di agganciarsi ad un appiglio per bilanciare quel nomadismo errante inscritto nel Dna. Appena 3,7 milioni di persone, poco più di metà concentrate nella capitale, intrappolate dalle arterie caotiche di Ulaan Baatar, città di contrasti, segnata dalla grigia edilizia sovietica, i nuovi agglomerati di cemento e i ger district, gli accampamenti periferici abitati da povertà e degrado.



All’arrivo di Francesco all’aeroporto internazionale il sorriso gentile di una donna e il profumo dello yogurt secco, piatto rituale, poi l’immersione nel guazzabuglio urbano del primo centro mongolo, in cerca dell’oasi della prefettura apostolica, luogo di ristoro in questi giorni, a 1300 metri di quota, che vivrà in pochi essenziali appuntamenti.

Nella sua prima giornata tra ciò che resta dell’impero di Gengis Khan, molto riposo, per assorbire fatica e fuso orario, pesante anche per uno come lui abituato a non concede molte ore al sonno, ma anche l’assaggio dell’area pesante della terza città più inquinata del mondo e la gentilezza del popolo mongolo, che non nasconde la gioia per l’arrivo di un ospite che proietta il Paese, ansioso di conferme internazionali, sulla scena mondiale. Non più Stato vassallo ma ancora non totalmente affrancato dalla sudditanza economica e politica verso i vicini ingombranti, Russia e Cina, interessato a stringere amicizia e rapporti commerciali non solo con le tigri asiatiche, Corea del Sud e India in testa, ma anche con la vecchia Europa.



Per il governo mongolo, contestato dalle piazze per peccati di corruzione e mala gestione delle risorse, in affanno dopo la pandemia, decisamente svantaggiato dalla guerra in Ucraina, la visita del Papa è un’occasione unica e irripetibile di affacciarsi sulla scena internazionale, con il bagaglio di tradizioni e identità da riscoprire e valorizzare, la vocazione al multiculturalismo, l’evasione da un isolamento geografico non più tollerabile.

Francesco è il migliore testimone per un Paese che vuole accreditarsi sulla scia del mito del fondatore dell’impero mongolo, il grande condottiero indomabile, la figura sacra che aveva imposto la potenza dei figli della luna da Pechino a Cracovia. Una nazione che deve fare ancora i conti con sacche di grande povertà, con l’arretratezza agricola e il persistente nomadismo. E che ha trovato nella giovane Chiesa mongola un’alleata preziosa per venire incontro ai bisogni di quei cittadini stritolati da caro vita, inflazione e crescita forzata. Esiliati dalla steppa e da stili di vita ancestrali dalla seduzione metropolitana.

Vedremo come Francesco risponderà a queste attese, ma soprattutto come gestirà la commozione del pastore che incontra il suo gregge più giovane e piccolo. Una Chiesa nata nel 1992, che conta poco più di 1.500 fedeli. Le ore di riposo strappate al programma serviranno anche ad attrezzarlo a non lasciarsi sopraffare dalle emozioni.

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