ULAANBAATAR (Mongolia) – Già dalla mattina di Ulaanbaatar si era intuito come sarebbe stato condotto il primo giorno pubblico di Papa Francesco in Mongolia. La terra dell’eterno cielo aveva accolto il pontefice con la fierezza e la potenza espressi dal mito di Gengis Khan. Nella centralissima Sukhbaatar, la parata di guerrieri a cavallo, le vesti militari e persino il presidente Ukhnaagiin Khurelsukh con indosso l’abito tradizionale, avevano fatto di tutto per esibire l’identità e le radici mongole, mostrando il cuore sacro dell’impero che aveva soggiogato due continenti.
Uno spettacolo sfarzoso e suggestivo, davanti il Saaral Ordon, il palazzo grigio che concentra il potere governativo, scenario di una serie di incontri, di cui il primo offriva l’immagine del successore di Pietro dentro una Ger, la tenda in feltro, abitazione tradizionale delle popolazioni nomadi, pronto ad essere omaggiato come ospite sacro, all’interno di uno spazio simbolico e allo stesso tempo profondamente familiare a ogni mongolo. L’ultimo atto di relazioni, per lo più epistolari, tra Santa Sede e Mongolia che hanno attraversato i millenni: dopo la diffusione di comunità nestoriane nel X secolo, le lettere scambiate dal nipote di Gengis Khan e Innocenzo IV, proprio tra la fine d’agosto e la fine di settembre del 1245, tramite il messo francescano Giovanni di Pian del Carpine, ambasciatore nella corte dell’imperiale Karakhorum, ed altri episodici contatti, finalmente un pontefice e un discendente del grande conquistatore si sono incontrati, mostrando una sorprendente sintonia su temi come la tutela del pianeta, urgente e non rimandabile sia per il Papa pronto a licenziare la Laudato Si’ parte seconda, che per il capo di un Paese che soffre l’inquinamento massiccio da combustibili fossili.
Non solo: entrambi nei loro discorsi hanno fatto riferimento a quella straordinaria congiuntura astrale che aveva portato alla Pax Mongolica, per certificare da un lato la vocazione a una politica estera pacifica del governo di Ulaanbaatar, dall’altro l’ansia che sulla terra, devastata da troppi conflitti, si creino anche oggi, nel rispetto delle leggi internazionali, le condizioni per “spazzare via le nuvole oscure della guerra” con la “ferma volontà di una fraternità universale”.
È il desiderio continuo e inesaudito del pontefice, che non si stanca di gridare in ogni angolo del mondo, e tanto più sotto “l’eterno blu” del cielo mongolo, il bisogno di pace del pianeta. Francesco ha puntato su un Paese che ha tutte le carte in regola per proporsi sulla scena internazionale con il suo destino di placido pacificatore: non c’è solo la storia a ricordare una pace che era comunque stata imposta con le scorrerie feroci delle orde mongole, ma anche la naturale disposizione, affinata nei secoli, al dato spirituale, il riconoscimento del diritto alla libertà religiosa, riscoperto dopo anni di ateismo di Stato, la propensione all’incontro gentile, al rispetto dell’altro, la ferma determinazione a denuclearizzare il Paese, e l’incoraggiante decisione di eliminare la pena di morte dall’ordinamento giudiziario. Tutte cose che fanno della Mongolia non solo un Paese cuscinetto tra Russia e Cina, ma anche un valido interlocutore per sostenere le ragioni della pace.
La mattinata trascorsa onorando il proverbio locale che recita “se bevi l’acqua di una terra straniera, devi berne anche le tradizioni”, ha avuto un prosieguo nel pomeriggio, nel quartiere orientale della capitale, dove sorge la cattedrale dedicata ai Santi Pietro e Paolo, luogo del primo abbraccio tra la piccola e povera Chiesa mongola e il pontefice. Anche qui Francesco ha oltrepassato l’uscio sacro di una Ger, montata nel giardino del comprensorio: si è inchinato oltrepassando l’uscio sulle sue gambe, non è chiaro se rispettando la tradizione che vuole si entri sempre con il piede destro per primo, e ha stretto le mani di una vecchietta, splendida nel suo lucido abito bianco, anche lei appoggiata a un bastone. La signora Tsetsege dieci anni fa recuperò dalla discarica una statua della Madonna, che oggi è venerata in tutta la Mongolia come la “Madre del Cielo”, intronizzata nella cattedrale, icona di una Chiesa periferica, rinata tra la spazzatura e le macerie dell’ideologia marxista.
Un momento privato che il Papa ha voluto mettere all’inizio del suo incontro con il piccolo gregge cattolico. Fuori dalla Ger i cinque animali sacri delle popolazioni nomadi assistevano a questo faccia a faccia così insolito, per nulla folkloristico, sostenuto da una commozione autentica e dalla palpabile devozione per la Madre di Dio. Poi ci sono state le parole, il riconoscimento del valore di una Chiesa dai numeri esigui, 1.500 fedeli, ma sostenuta dalla “disarmante e disarmata potenza del Risorto, l’avvertimento al vicino popolo mongolo per parlare alla più distante Cina sul fatto che nulla c’è da temere dalla Chiesa, che non ha agende politiche da portare avanti, la raccomandazione di vicinanza e semplicità nell’evangelizzazione, il richiamo all’adorazione continua per sostenere l’azione della comunità. Ma il punto centrale intorno a cui tutto ruotava era proprio l’effige della Madre del cielo, emersa tra gli scarti in tutta la sua purezza. La consapevolezza che la piccolezza non è un problema. Dio ha ricordato il Papa fa cose grandi attraverso i piccoli. Maria lo insegna.
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