MAPUTO (Mozambico) — Reconciliação, Reconciliação. L’urlo ossessivo ha battuto il tempo nel Pavillon Maxaquene di Maputo, rimbalzando sulle pareti umide di fiati e afa, infiltrandosi tra le onde di corpi protesi al cielo con le mani intrecciate. Reconciliação, Reconciliação, nel portoghese masticato sulle rive dell’Oceano Indiano, la sostanza di un desiderio compresso in anni di guerra civile e incertezza democratica, esploso grazie alla generazione degli smartphone, giovani che non hanno mai conosciuto la morte per passione politica o ideologica, ma ne hanno subito il peso, in una lunga scia di sofferenza e memorie.



Forse è in quel momento, alla fine della sua prima mattinata in Mozambico, che Papa Francesco ha compreso davvero cosa c’è in gioco in questo lembo di Africa alla ricerca di una definitiva normalità. Avvolto dalla gioia, ma anche dalla freschezza dei giovani che pretendono e rincorrono la pace, il pontefice ha sentito tutta l’attesa del paese per l’ultimo atto di un dramma che ha funestato decenni e che forse sta per sciogliersi con le elezioni politiche del 15 ottobre prossimo.



L’eterno scontro tra le forze governative della Frelimo, di ispirazione maxista e la guerriglia armata della Renamo, sta per giungere alla conclusione dopo gli accordi per il cessate il fuoco siglati, un mese fa, nella Serra della Gorongosa. 27 anni dopo la stretta di mano tra il presidente Joaquim Chissano e i vertici della guerriglia, a Roma, nella sede della Comunità di Sant’Egidio, la pace sembra davvero ad un passo. Era il 4 ottobre del 1992 e venivano gettate le basi di un confronto che sarebbe durato ancora anni, minato da attentati e rappresaglie, ma saldato dalla comune volontà di trovare una soluzione.



La parola “riconciliazione” nella giornata di ieri, durante l’incontro interreligioso con i giovani, è tornata nei canti, nei gesti, nelle magliette stampate di sudore. E Francesco si è accordato subito al clima bollente, con un discorso puntellato di domande, trascinante nel riproporre la gioia come antidoto alla divisione, l’unità come strada per la costruzione del bene comune.

C’erano volti con storie e fedi diverse ad ascoltare il Papa, pronti ad esultare quando ha citato la gloria nazionale, quell’Eusebio da Silva, campione nello sport e nella vita, con i suoi 77 goal. La Pantera nera, come esempio per una generazione e un paese che non può cedere alla rassegnazione e all’ansia, ma scommettere sul perdono e la pazienza dell’incontro.

L’inimicizia sociale distrugge la famiglia, la nazione e il mondo, ha fatto ripetere Francesco ai 15mila presenti nello stadio multifunzionale di Maputo. Un mantra per ricordare il vecchio adagio per cui con la guerra si perde tutto. Una lezione che hanno imparato a proprie spese anche quegli adulti impegnati per anni a fronteggiarsi senza esclusione di colpi, prima di scoprirsi fratelli. Lo si è capito bene quando nel salone Indios del Palacio Ponta Vermelha, il presidente in carica Nyusi ha invitato l’antagonista, il capo del partito di opposizione della Renamo, Ossufo Momade, ad alzarsi. Insieme, in piedi, si sono presentati al Vicario di Cristo, solo l’ultimo di una lunga schiera di testimoni del Vangelo e della pace, arrivati da Roma negli ultimi anni. Un gesto che ha detto molto della volontà di costruire un Mozambico che non conosca violenza e povertà, dove non si distinguano militanti della Frelimo e della Renamo, ma dove tutti si possano riconoscere fratelli dell’unica famiglia mozambicana.

Nonostante la campagna elettorale ipotecata dalle attese e le speranze del popolo stanco, bisognoso di normalità, stremato dalle devastazioni di Idai e Kenneth, i tifoni che hanno messo in ginocchio intere regioni mozambicane, le anime del paese hanno voluto raccogliere l’invito alla riconciliazione e al coraggio della pace di Francesco. Un lavoro duro, senza sosta, un fiore fragile da coltivare, coinvolgendo tutte le generazioni e gettando ponti, scommettendo su uguaglianza e dignità. Il primo messaggio del trentunesimo viaggio di Bergoglio è già una possibilità.