JUBA (Sud Sudan)Arrivare a Juba è come scendere un paio di gradini verso l’inferno. Il caldo ti abbrustolisce, i colori sono contrastanti, il nero dei volti e dei vestiti d’ordinanza ti stranisce. Sono tutti altissimi, molto più dei Watussi, esili come giunchi e decisamente impenetrabili. Gente che soffre. Lo capisci alla prima occhiata. Nel nuovo girone africano visitato da Papa Francesco, il Sud Sudan, di ragioni per rimanere ce ne sono poche. Molte per fuggire. È per questo che si contano ingressi ed esodi nella misura di milioni. Due milioni sono i rifugiati interni, altri due quelli che arrivano dal nord della regione, il pezzo di storia e di carne reciso come un cancro nel 2011, quando l’appendice meridionale del Sudan, in maggioranza cattolica, diventa ufficialmente il 54esimo stato africano. Fondato sul sangue e il martirio, neanche a dirlo.



Ma il nuovo Stato indipendente non ha vita facile: il conflitto interetnico esplode quando gli eroi della secessione iniziano a litigare, e di brutto, per spartirsi il potere. Ci si mettono anche un paio di giacimenti petroliferi a solleticare appetiti e sferzare ambizioni e nel 2013 si sguazza ancora nella guerra, prima di Nuer e Danka, le etnie predominanti, a cui se ne aggiungono anche altre. Nel 2015 il primo di una serie infinita di accordi di pace, che porta alla formazione di un governo di unità nazionale: dura un paio di stagioni e nel 2016 è già over. La faccio breve: dopo 500mila vittime, e molti tentativi di riconciliazione andati a vuoto, il Sud Sudan è ancora sospeso. Non è pacificato, non è ancora una democrazia e soprattutto ha un popolo che muore di fame. Ci si sono messe la pandemia e le alluvioni, regalo del meteo impazzito, a portare oltre l’80% della popolazione sotto la soglia di povertà.



In questo bel posticino, dove non ci sono infrastrutture, presidi sanitari, scuole e dove il meglio che ti può capitare è essere assistito dal World Food Program, è arrivato, ieri, Papa Francesco. E non da solo. Si è tirato dietro l’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby e il moderatore della Chiesa di Scozia, Iain Greenshields, in un pellegrinaggio ecumenico che ha tutto il sapore di una lavata di capo. Nell’aprile del 2019 Francesco aveva invitato in Vaticano, per un ritiro spirituale, i leader sudsudanesi rivali. Dopo l’accordo del 2018, siglato ad Addis Abeba, quello detto “rivitalizzato”, che prevedeva il reintegro del capo dei ribelli, Rieck Machar, le violenze e le violazioni dei diritti umani non si erano fermate, e occorreva un’azione creativa, per far pressione sui gruppi dell’opposizione che non avevano firmato i nuovi patti. Francesco fece un gesto sorprendente: oltre alla mediazione vaticana, e ad offrire le sacre mura al confronto tra le parti, si chinò a baciare i piedi dei due contendenti. Salva Kiir, il presidente cow-boy, bersaglio di meme e social, per la tendenza ad alzare il gomito, ne rimase impressionato e giurò di fare tutto il possibile per procedere sulla strada della riconciliazione nazionale. Promessa puntualmente disattesa. Da allora si cerca ancora di portare a meta la Road map per la normalizzazione dello Stato. Ma la situazione, invece di migliorare, peggiora.



Così Francesco decide di compiere il passo comune, e con gli amici di brigata prende e viene a Juba. Salva Kiir deve aver subodorato la tempesta in arrivo, e nel discorso con cui ieri sera, nei giardini del palazzo presidenziale (anche questo provvisorio) ha accolto il pontefice ha annunciato che tornerà a sedersi ai colloqui di pace di Roma, altro tentativo messo in piedi dalla Comunità di Sant’Egidio per cercare di trovare una soluzione ad una guerra inutile e fortemente dannosa.

I sospetti di una mossa d’anticipo e le diffidenze sono legittimi, ma il Papa ieri non si è lasciato incantare e gliene ha dette quattro. A tutti, governativi e oppositori. Soprattutto ancora una volta è diventato la voce di chi non ha voce: quel popolo più che misero, ostaggio di un processo di pace incompiuto e di una situazione politica paralizzata, vittima di violenza, mancanza di sicurezza. Ha detto “Basta!”. Ha proprio alzato la voce. “È ora di dire basta, senza ‘se’ e senza ‘ma’. Basta sangue versato, basta conflitti, basta violenze e accuse reciproche su chi le commette, basta lasciare il popolo assetato di pace”. È l’ora della costruzione, ha aggiunto. Insomma meno ciance e passiamo ai fatti. Mettetevi d’accordo e andiamo avanti che la pazienza è finita. E poi Francesco ha aggiunto “non è più tempo di lasciarsi trasportare dalle acque malsane dell’odio, del tribalismo, del regionalismo e delle differenze etniche”.

Poche persone al mondo hanno l’autorità morale per fare un discorso del genere a chi è armato fino ai denti. Alla fine si è persino scusato per la franchezza e, diciamolo, i toni perentori. Ma la sostanza non cambia. Il Papa e si suoi amici si sono compromessi nel dialogo per la pace, ci hanno messo la faccia, si sono spesi, hanno fatto tutto il possibile. Persino inchinarsi a chi sembrava voler dare una svolta al dramma che si protraeva da anni. Ma il tempo della responsabilità si impone. Per Salva Kir, come per gli altri capi in giro per il mondo. Dalla melma della guerra bisogna voler uscire.

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