Il viaggio del Papa in Ungheria, dal 28 al 30 aprile, non ha avuto la stessa risonanza di altri viaggi. Ai media la decisione di Francesco di recarsi nella terra di Orbán è sembrata quantomeno azzardata, poco in sintonia con le grandi parole d’ordine di questo pontificato. Una terra, l’Ungheria, troppo compromessa con tutto quel mondo filoputiniano che è considerato un vero e proprio cavallo di Troia nell’Europa dei ventisette e, soprattutto, nell’Alleanza Atlantica. Il leader ungherese, al potere ormai dal lontano 2010, non è parso in sintonia con il modello di democrazia e di inclusività, in specie sulle battaglie Lgbtqi+, che la narrazione liberale del decennio di Francesco attribuisce al Vescovo di Roma.



Eppure il viaggio del Papa non è da guardare dalla prospettiva dei diritti, non è da guardare dalla prospettive delle alleanze o dei populismi, ma è da collocare in quell’orizzonte poliedrico che si comprende e si percepisce solo alla fine, non in itinere.

E così, al termine di queste tre intensissime giornate che hanno molto provato la vecchiaia del Papa ammalato, le testate di tutto il mondo comprendono che Bergoglio ha fatto non qualcosa di insolito, ma in perfetta assonanza con le linee guida del suo magistero. Il papa ha infatti iniziato la sua riflessione stigmatizzando tutte quelle culture che cercano di costruire architetture sovranazionali senz’anima, con buona pace dell’Unione Europea, e condannando fermamente ogni forma di populismo: al centro ci deve essere la realtà e la realtà è il popolo con le sue istanze, la sua storia, la sua cultura. Difendere l’identità non significa aggrapparsi a facili nazionalismi, ma ribadire che il vissuto di un popolo non può essere esposto alla legge del consumo: oggi consumiamo idealità, movimenti politici, storie condivise, identità personali e collettive. Niente più dura perché tutto è in vendita e deve essere costantemente cambiato, rifatto, abbellito.



Un approccio di siffatta natura impedisce la profondità, inibisce la dimensione spirituale dell’uomo, lasciando la persona ricca di tutto ma priva di legami, di relazioni con cui costruire qualcosa che affondi nelle radici e nel tempo condiviso la sua vera forza. Ed è in quest’orizzonte che Francesco ha condannato la cultura gender, come figlia del provvisorio, del supposto, del consumato.

Da questa netta presa di distanza da coloro che rifiutano la realtà e le sue asperità, il Papa ha poi lanciato la sua sfida sulla pace: oggi l’Europa ha bisogno di pace, l’Ucraina ha bisogno di pace. Dirlo non significa tradire il dato di fatto, quello di un’invasione tremenda e ingiusta, ma porre le basi perché tale misfatto sia superato da una giustizia condivisa, da una speranza non tradita. Come è la realtà che impone identità non provvisorie, ma solide – affinché l’uomo sia tratto via dalla disperazione e dall’angoscia – così è la realtà che chiede la pace. L’Europa, ha detto Bergoglio, deve abbandonare un futuro di tombe per abbracciare un futuro di culle. E con questa frase Francesco ha riassunto tre delle grandi questioni del nostro tempo: la guerra che genera morte, la crisi demografica che mette in ginocchio i paesi del Vecchio Continente e il Mediterraneo come luogo di tombe dei tanti disperati che partono alla ricerca di un futuro migliore.



L’accoglienza invocata dal Papa, e qui ribadita nel terzo della tre giorni ungherese, non trova il suo fondamento in una politica di apertura indistinta delle frontiere, ma in una necessità che la realtà stessa chiede. Identità solide e relazionali, pace fondata sulla giustizia, apertura all’ingresso di genti nuove che possano essere integrate nel continente: Bergoglio sembra avere lo sguardo lungo, in contrasto con il fiato corto dei politici europei che guardano al giorno per giorno senza darsi come prospettiva quella dei decenni e dei secoli a venire. Come accade in campo teologico ed ecclesiale, anche in quello civile e politico il Vescovo di Roma sembra puntare in alto, guardare oltre, essere attaccato più ai processi da intraprendere che ai risultati da raggiungere.

Non stupisce, allora, che il grande tema del viaggio papale sia stato il Danubio, fiume che porta vita e che lega le grandi civiltà del continente, da Vienna a Bratislava, da Budapest a Belgrado. In quel grande fiume, che all’ombra della sera saluta l’aereo del Papa che ritorna a Roma, Francesco vede una realtà e una profezia. La realtà di un legame fra le nazioni che rende oggi il processo europeo indissolubile e irreversibile e la profezia di un tempo in cui ciò che attraversa ogni Stato, siano essi problemi o drammatiche novità, non debba diventare pretesto per voltare le spalle alla solidarietà e al bene, ma per cercare – come fa il fiume – quella sorgente che rende possibile ogni giorno il miracolo della vita. Quel volto di Dio che ci rende tutti liberi. A fame, a peste, a bello dicevano i medievali. Dalla fame, dalla malattia e dalla guerra. Una libertà che il Papa chiede per il futuro della terra magiara e del mondo intero.

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