L’onda di morte che tracima dalla Palestina non cessa di interrogare le coscienze. Il mondo si mobilita, le piazze si dividono, gli uomini arringano i loro simili con ragionamenti e convinzioni. Ma allora perché, si dice sottovoce, il Papa non si schiera? Ha parlato di pace, ha detto parole inequivocabili su alcuni frangenti e passaggi del conflitto, ha chiamato i fedeli alla preghiera e al digiuno, ma perché non dice una parola chiara dinnanzi al quadro che tragicamente si dipinge ogni giorno davanti ai nostri occhi?



Il problema, come sempre, sta nella domanda: che cosa significa schierarsi?

Intervistato dal direttore del TG1, Bergoglio continua nel suo approccio profondamente diverso da quello della politica. Infatti, per l’uomo della strada schierarsi coincide con il fare una dichiarazione, scrivere un post su un social, dire una frase. Ma nella storia bimillenaria della Chiesa, fatta di miserie e di gloria, una questione come quella che si gioca tra il Mediterraneo e il Giordano presenta una serie di complessità non eludibili che Francesco ha ben presenti.



C’è anzitutto un tema politico: Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente. La sua caduta avrebbe un effetto devastante sulle democrazie occidentali e sulla tenuta degli equilibri mondiali. Israele non può dunque perdere la sfida lanciatale da Hamas. E qui viene il tema geopolitico: quello che sta accadendo non è un fatto “regionale”, ma chiama in causa equilibri delicatissimi che non solo vedono come protagonisti – per l’ennesima volta – Stati Uniti e Cina, ma che portano con sé addentellati non secondari come la lotta al terrorismo e il rapporto irrisolto tra l’Autorità Nazionale Palestinese e Hamas, tra un’entità che diversi Stati del mondo riconoscono come legittima e una formazione dichiaratamente terroristica. Hamas non coincide con la voce dei palestinesi, ma in questo momento le azioni che compie coprono quella che dovrebbe essere la voce ufficiale di quel popolo, una voce che non ha la forza di esporsi e di imporsi.



Di fronte a questo il pontefice richiama gli accordi di Oslo: due popoli, due Stati, con Gerusalemme città a statuto speciale. È l’unico modo, già sancito dalla comunità internazionale, per garantire una convivenza a due entità che non sono riducibili a due monoliti. Palestina e Israele non sono certamente due Stati cristiani, ma entrambi ospitano – in misure diverse – comunità cristiane. Qui emerge per il Papa il tema pastorale: può un pontefice dire nettamente cose che potrebbero danneggiare o esasperare la situazione per tanti figli della Chiesa non solo in quelle terre, ma anche nelle nazioni che si fronteggiano in questo terribile conflitto?

È a questo punto che si inserisce il tema religioso. Islam ed ebraismo non sono due fenomeni accidentali della storia, ma due attori con cui la Chiesa – dal Concilio Vaticano II in poi – ha cercato di dialogare e di costruire nuove possibilità di convivenza. Ogni parola rischierebbe di spezzare il delicato equilibrio raggiunto e potrebbe generare danni ben peggiori di quelli che oggi si possono misurare. Già l’esporsi sulla soluzione di Oslo significa in qualche modo esprimersi per qualcosa su cui Israele non è compatta: garantire l’esistenza di uno Stato palestinese.

Infine, c’è la questione più importante, la questione umanitaria, di cui si occupa con tenacia e intelligenza il cardinale Pizzaballa e che interessa sopra ogni cosa la Santa Sede: la gente muore, molti israeliani sono morti, moltissimi palestinesi sono le vittime designate di questo conflitto. Insomma: tanta gente muore, troppa gente muore. E la gente, quando muore, non appartiene ad una fazione, ma appartiene al genere umano. Il vero problema che il Papa si pone è semplice: come è possibile, tenendo conto di tutti i fattori che prima si sono elencati (e di molti altri che per amore di sintesi sono stati ignorati), che la gente smetta di morire? Come è possibile che là dove adesso c’è un conflitto tra sordi si possano creare condizioni di pace? Come arginare la vendetta? Come promuovere il diritto internazionale? Come servire la giustizia?

Evidentemente i canali tradizionali non bastano, così come non sono sufficienti le posizioni di principio. Occorre qualcosa di molto più profondo che, politicamente, si può chiamare diplomazia – ossia la capacità di entrare in contatto fra le parti e condurle su una strada condivisa – ma che teologicamente si deve chiamare “profezia”, capacità di parlare al cuore delle persone, al cuore dei politici, al cuore dei generali, al cuore di chi prende decisioni, per mostrare un’alternativa possibile. Le parole del Papa sorgono sempre dalla consapevolezza che solo Cristo cambia il cuore dell’uomo e che questa verità – che per i cristiani è l’unica verità della storia – deve essere detta con gli strumenti, con i mezzi e con gli accenti che abbiano la capacità e la forza di raggiungere davvero coloro che da questa unica verità possono essere smossi.

È facile stare a guardare la vita dal divano, è difficile mettersi in gioco nella realtà, lottare per chi muore in queste ore in quella striscia di sangue benedetta e maledetta, fare incontrare le ragioni della giustizia con quelle della pace, le ragioni del buon senso con quelle del perdono. Non è un compito facile quello che in queste ore svolgono uomini come Pizzaballa o Papa Francesco, e tanti altri che non conosciamo e di cui non sapremo forse mai nulla.

L’ultima cosa che a loro serve, in ogni caso, è il nostro giudizio. Dal divano di casa, dalla nostra tastiera. Un giudizio così forte e inappellabile da coprire, con la sua violenza, tutta la potenza della fede. Tutta la sorprendente potenza della preghiera. Questo è l’unico schieramento che ci deve interessare: quello dell’umano, quello del grido, quello della mendicanza. È questo schieramento che non può, e non deve mai, essere sconfitto. Prima che dai nemici che stanno fuori, dal nostro saccente cinismo.

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