Il conflitto bellico che oppone la Russia putiniana all’Ucraina è tragico non solo per le devastazioni e le morti che produce ma anche perché ripropone, nella scena del mondo, il contrasto tra Est e Ovest che sembrava superato con la caduta del comunismo. Ne ha parlato qualche giorno fa Antonio Polito sul Corriere (Le idee contro, 17 marzo 2022).
Per Polito “nata con giustificazioni geopolitiche (l’espansione della Nato) o etnico-nazionali (la sorte della minoranza russofona), la guerra all’Ucraina sta assumendo i caratteri di uno ‘scontro di civiltà’. Sembra di essere tornati alla profezia del 1996 di Samuel Huntington: in un libro sostenne che la Guerra Fredda sarebbe stata sostituita da nuovi conflitti fondati sulle identità religiose e culturali. Lo scontro tra l’Islam radicale e l’Occidente ne fu una clamorosa conferma. Lo sarà anche quello in corso tra Occidente e Russia?”.
Il quadro prospettato da Polito è corretto e ripropone l’attualità della prospettiva di Huntington il quale già nel 1996, prima dell’abbattimento delle Torri gemelle a New York che avrebbe inaugurato l’era della teopolitica e dello scontro politico-religioso tra l’Occidente “cristiano” e l’Islam, coglieva profeticamente i nuovi scenari segnati da scontri di civiltà e non più da meri conflitti di interesse. Dopo l’11 settembre 2001 è la teologia politica che domina la scena e, con essa, la dialettica schmittiana tra amico e nemico. Ciò significa che il nuovo contrasto tra Est ed Ovest, diversamente da quello del dopoguerra segnato dall’opposizione tra l’Occidente liberal-capitalista e l’Oriente marxista, assume oggi connotati religiosi assenti in passato. Ne è riprova il conflitto presente tra il nazionalismo politico-religioso filoccidentale dell’Ucraina e il mito della grande Russia ortodossa sognato dall’uomo del Cremlino. Il caso russo ha qui un valore emblematico. Nel nostro volume Critica della teologia politica, pubblicato nel 2013, scrivevamo in proposito:
“Il 2001 ha riproposto il modello teologico-politico, e questo non solo negli Usa di Bush jr, o nei Paesi dell’Islam, ma anche nell’India segnata dal fondamentalismo indù, avverso ai musulmani e ai cristiani, o nelle componenti fondamentaliste che, in Israele, avversano la forma laica dello Stato. Un caso significativo di questo ritorno è il modello teodosiano-costantinopolitano riproposto dalla Chiesa ortodossa russa dopo la caduta del comunismo. Anche nella Russia post-sovietica la fine di settant’anni di ateismo di Stato ha aperto, per il cristianesimo ortodosso, un terreno di libertà e di opportunità le quali richiedevano, però, come afferma Olivier Clement, la capacità di vivere la fede in un mondo pluralista. Una capacità che implica un processo di relativizzazione dei modelli storico-religiosi analogo a quello compiuto da Maritain ed esplicitato dalla Chiesa cattolica con il Concilio Vaticano II. Analogamente per la Chiesa ortodossa, come ha scritto Nikolaj Losskij, ‘il crollo dell’Impero russo non è stato un avvenimento unicamente politico. Si tratta della fine improvvisa, forse definitiva, di una condizione, in cui si trovava la Chiesa, considerata da molti come più o meno perfetta: l’Impero bizantino. […] È al crollo improvviso di questa situazione considerata come immutabile e ritenuta come una specie di garanzia del carattere perenne dell’ideale bizantino, che la Chiesa ortodossa nel mondo intero ha assistito. La Chiesa ortodossa russa, per quanto la riguarda, s’è trovata improvvisamente privata d’una situazione in cui essa aveva avuto la tendenza a installarsi da circa 200 anni: la Chiesa di Stato’. Per Losskij ‘dall’esempio della Chiesa russa tutte, o quasi, le altre Chiese ortodosse hanno derivato una lezione vitale: il monito, senza dubbio voluto da Dio, che la Chiesa non si può identificare con alcuna situazione socio-politica e che essa è, di conseguenza, chiamata ad illuminare tutte le situazioni socio-politiche’. La posizione di Losskij indica il punto del dibattito che divide attualmente la Chiesa ortodossa russa, il Patriarcato in particolare, al suo interno: tra chi pensa che la fede non abbia bisogno di nulla per essere comunicata, se non della libertà di espressione e della testimonianza, e chi, invece presume che solo l’antica e consolidata alleanza tra Chiesa-Stato-nazione possa restituire prestigio alla religione e arrestare il processo di secolarizzazione proveniente dall’Occidente. Nella Russia post-sovietica questa seconda possibilità trova il consenso dello Stato il quale, dopo il tramonto del marxismo, vede nel nazionalismo, di cui la antica Chiesa ortodossa era parte integrante, il cemento ideale all’insegna di un rinnovato connubio teologico-politico”.
Nel corso degli ultimi anni questa seconda posizione è divenuta dominante ed ha trovato forma nella santa alleanza che lega il presidente Putin al Patriarca ortodosso Kirill. Come ha dichiarato ad Avvenire Sergey Chapnin, ex direttore del Giornale del patriarcato di Mosca dimesso da tale incarico dal Patriarca a seguito delle sue dichiarazioni sulla “Chiesa dell’impero”:
“Su certi temi il patriarca e il presidente Putin hanno idee che coincidono da almeno quindici anni. Kirill ha per la Chiesa la stessa visione imperialistica che il Cremlino ha in politica. Da molto tempo il patriarca si sente l’unica figura che può tenere unite le terre dell’ex Urss, il vero leader spirituale dell’ex impero sovietico, perché la Cor [Chiesa ortodossa russa] è presente nei Paesi Baltici, in Ucraina, nel Caucaso, nell’Asia Centrale. Lui pensa che l’Ucraina sia ‘sua’, proprio come Putin pensa che l’Ucraina sia ‘di Mosca’. È quindi naturale che i due si appoggino l’un l’altro. D’altra parte, il concetto di Russkij mir (mondo russo) e di Santa Rus’ (ovvero di un unico corpo di popoli slavi che deve restare unito sotto l’egida di Mosca, nda), che da anni sono alla base della propaganda e della storiografia di Stato, furono elaborati da un ristretto ambito di circoli intellettuali e think tank tra cui ebbe un ruolo fondamentale il Vsemirnyj Russkij Narodny Sobor (Consiglio mondiale popolare russo), che era stato fondato proprio da Kirill quando era ancora metropolita e responsabile delle relazioni estere della Cor. Kirill riuscì poi a ‘vendere’ al Cremlino questa idea, che è diventata l’architrave dell’azione politica della Russia (Cristiani divisi. Effetto guerra, ‘Il patriarcato di Mosca ha comunque perso l’Ucraina’, intervista di Fulvio Scaglione, 24 marzo 2022)”.
La mistica etno-territoriale-religiosa, al centro dell’idea della “grande Russia” zarista, è il collante ideologico che Kirill ha offerto a Putin per colmare il vuoto ideale seguito al crollo del comunismo. Come ogni teologia politica anche questa richiede un nemico. In questo caso l’Occidente, terra di edonismo-relativismo-corruzione morale. Donde la giustificazione “religiosa” della guerra protesa ad impedire che Kiev, la madre patria della santa Russia, cada nelle spire e nei tentacoli dell’Occidente. La guerra può così diventare “santa” e il conflitto assume una forma “metafisica” di lotta tra le forze del bene e quelle del male. È la prospettiva dell’ideologo della rivoluzione conservatrice Alexsandr Dugin. La stessa che sta al centro del discorso del 6 marzo del Patriarca Kirill:
“Ciò che sta accadendo oggi nell’ambito delle relazioni internazionali, quindi, non ha solo un significato politico. Stiamo parlando di qualcosa di diverso e molto più importante della politica. Stiamo parlando della salvezza umana, su dove finirà l’umanità, da che parte di Dio Salvatore, che viene nel mondo come Giudice e Creatore: a destra o a sinistra… Tutto quanto indica che siamo entrati in una lotta che non ha un senso fisico, ma un significato metafisico”.
Questa lotta è contro il potere mondiale rappresentato dall’Occidente. Per Kirill:
“Oggi esiste una prova per dimostrare la lealtà a questo governo [il potere mondiale], una specie di lasciapassare verso quel mondo ‘felice’, il mondo del consumo eccessivo, il mondo della ‘libertà’ visibile. Sapete che cos’è questa prova? Una prova molto semplice e allo stesso tempo terribile: è il gay pride. Le richieste a molti di organizzare un gay pride sono una prova di lealtà a quel mondo molto potente; e sappiamo che quando le persone o i paesi rifiutano queste richieste, allora non possono entrare in quel mondo, ne diventano estranee”.
Che l’argomento del “gay pride” venga addotto dal Patriarca come il tema per eccellenza, quello che dovrebbe giustificare la guerra contro l’Ucraina, è, sotto ogni punto di vista, incredibile. La guerra della Russia contro l’Ucraina assume qui un valore katechontico in senso paolino. La Russia diviene il “potere che frena” l’avanzata dell’Occidente. Un Occidente che, va detto con chiarezza, da più di venti anni a questa parte non ha cessato sì di avanzare ma non tanto sul terreno “libertino” quanto su quello militare con le sue alleanze pilotate dalla Nato che hanno chiuso la Russia in una cintura senza zone bianche. È questa blindatura, come è evidente ad ogni osservatore, che è la causa prossima della guerra presente. Una Russia chiusa all’angolo ha visto diminuire al suo interno le componenti filo-europee e prendere vigore quelle che non si erano mai rassegnate alla caduta dell’ex impero sovietico. L’Occidente, con gli Stati Uniti in primis, porta, da questo punto di vista, una enorme responsabilità riguardo alla creazione delle condizioni che hanno reso possibile il conflitto. Se Putin è un irresponsabile che si illude di essere assolto dalla storia per le sue mani insanguinate, altri portano una responsabilità sicuramente meno grave ma non certo lieve. Altri per cui la Russia doveva rimanere l’eterno nemico. Altri che hanno illuso l’Ucraina e il suo presidente Zelensky con l’idea di far parte della Nato.
Si è così arrivati alla tragedia politico-religiosa attuale e, con essa ad una nuova guerra fredda che rischia, come già prevedeva George Kennan nel 1997 alla luce dell’allargamento della Nato a Polonia-Ungheria-Repubblica Ceca, di portare ad una guerra calda. La stessa che ha auspicato in modo totalmente irresponsabile il presidente Zelensky chiedendo l’intervento della Nato, volendo cioè, di fatto, una terza guerra mondiale.
Nella nave dei folli spicca la figura tragica del Patriarca russo. Kirill è colui che, alcuni giorni fa, ha affidato al generale della guardia nazionale russa Viktor Zolotov una icona della vergine madre Maria (Theotokos) perché accompagni le truppe russe nella guerra contro gli ucraini, contro i fratelli di fede che dovrebbe difendere. Kirill è colui che ha offerto la giustificazione religiosa alla Russia nella guerra in corso, è colui che sta lavando la coscienza di Putin di fronte ai massacri propri di ogni guerra. Come afferma Chapnin nella sua intervista ad Avvenire:
“Putin è una persona semireligiosa ma certo non un cristiano. Sente il bisogno di un elemento mistico, misterico, forse magico, e soprattutto cerca una conferma sacrale a ciò che sta facendo. È importante per lui credere che le sue azioni ricevono una qualche conferma dall’alto. E il patriarca Kirill, con le teorie sul Russkij Mir o la Santa Rus’, offre a Putin e allo Stato russo la giustificazione che questi cercano per i crimini che commettono contro altri popoli ma anche contro il popolo russo, con la censura, la repressione, il terrore”.
L’ideologia religiosa copre e giustifica i crimini dello Stato. La posizione di Kirill divide oggi l’Ortodossia, quella ucraina innanzitutto, e obbliga a prendere posizione: giustificare religiosamente il potere o dissociare la teologia dalla politica? Una dissociazione che è al centro del lucido manifesto L’eresia, detonatore e volto della crisi, firmato da 65 teologi ortodossi di tutto il mondo, pubblicato in Italia da La nuova Europa.
La giustificazione religiosa della guerra addotta dal Patriarca costituisce un macigno anche per il dialogo ecumenico. Papa Francesco incontrò Kirill all’Havana a Cuba il 12 febbraio 2016 e fu un incontro storico che sembrava preludere ad un possibile viaggio del Papa a Mosca. Ora la guerra e la presa di posizione di Kirill rimandano tutto sine die. In questi anni Francesco ha intessuto il suo dialogo religioso con l’Islam a partire dal Dio di misericordia contro il dio della guerra. È la stessa prospettiva che ha guidato il dialogo ecumenico con i luterani e gli ortodossi: il Dio di Gesù Cristo è il Dio della pace e della carità. Ora nel cuore dell’Europa due nazioni cristiane, sorelle nella fede ortodossa, si sbranano; usano i simboli della fede gli uni contro gli altri; si richiamano al medesimo Dio e a Maria sua madre per portare avanti la macelleria del diavolo.
Di fronte a questa tragedia il Papa non ha preso posizione, anche se ha condannato chiaramente l’invasore e la guerra “ripugnante” e “ingiustificata”. Non ha però citato direttamente la Russia e questo gli è stato rimproverato dagli zelanti occidentalisti, dai nuovi teocon che nel ritorno del nemico trovano vigore. Il Papa non si è posto all’interno della dialettica tra Oriente-Occidente, non ha consacrato religiosamente l’Occidente. Se lo avesse fatto avrebbe offerto una legittimazione religiosa ad una delle parti in gioco, sarebbe divenuto lui stesso protagonista della tragedia in corso. Il Papa ha fatto un’altra cosa: ha consacrato Russia e Ucraina al cuore immacolato di Maria, si è affidato al mistero di Dio, al Dio della pace e non della guerra. Non ha offerto l’icona di Maria ad una parte contro l’altra ma ha detto a russi ed ucraini che sono tutti figli della stessa Madre, che sono quindi fratelli e non possono come Caino ed Abele uccidersi.
La consacrazione a Maria segue quanto Francesco ha detto nei giorni scorsi: basta armi, è ora di fermarsi prima che si spalanchi il baratro. L’Ucraina non può procedere oltre un certo limite e la Russia deve fermarsi. Lo possono fare se le potenze occidentali invece di continuare a soffiare sul fuoco sono in grado di offrire proposte di negoziato vere, credibili, realistiche. Il Papa non è il cappellano dell’Occidente, né tanto meno di Putin. È il pastore del mondo e, come tale, sta indicando ai popoli e ai loro governanti i punti limite, quelli che non devono essere valicati. Ne va dell’umanità nel suo insieme.
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