Caro direttore,
di tasse – com’è noto – parla Gesù Cristo nei Vangeli, affermando che a Cesare va dato ciò che è di Cesare, non meno di quanto a Dio vada dato ciò che è di Dio. Quando Papa Francesco ha ricevuto una delegazione dell’Agenzia delle Entrate dello Stato italiano (è accaduto lunedì scorso) si è ritrovato appieno nel suo ruolo di primo pastore della Chiesa, di prima voce del suo magistero sociale.



L’udienza è passata sui media fra le notizie di routine, come avviene spesso a torto: perché nessun gesto, nessuna parola di Papa Francesco cade mai nell’ordinario. Tanto meno ha potuto dirsi scontato il suo incontro con i pubblici funzionari italiani incaricati della riscossione fiscale: un compito per definizione gravoso e problematico (lo era anche per la Chiesa quando era uno Stato).



“La tassazione è una forma di legalità e giustizia”: il Papa è stato netto nell’apprezzare e incoraggiare il lavoro di chi materialmente esegue il prelievo fiscale secondo le disposizioni fissate per legge. Il sistema tributario – in un’organizzazione civile e istituzionale come la democrazia italiana – è in sé “buono”, conferma il Pontefice. Svolge la funzione fondamentale di redistribuire le risorse fra tutti i cittadini. È il primo strumento di contrasto alle diseguaglianze economiche e di realizzazione della solidarietà sociale (due obiettivi-pilastro della Costituzione italiana). Chi non paga le tasse che dovrebbe non è un buon cittadino e neppure un buon cristiano. Non lo è naturalmente nemmeno un governante che imponga tributi “cattivi”: non equi e – soprattutto – non impiegati per generare “bene comune” con politiche pubbliche adeguate, senza sprechi e con attenzione costante ai reali bisogni delle persone e della società.



La politica finanziaria – agli occhi di Papa Francesco – appare lineare, indiscutibile nella sua “buona impostazione”. Lo è anche – senza ombra di equivoco – verso quella Ue che sta addentrandosi nella complessa ridiscussione del patto di stabilità: cioè gli equilibri fiscali di 26 paesi, con perenni problemi di armonizzazione. Non appare certo, quello di Francesco, un appello alla “frugalità” tecnocratica, in odore di austerity. La sua si presenta invece come una considerazione di metodo, ancora una volta non banale: se in un Paese – in qualunque Paese – il sistema tributario funziona (efficiente ed equo, trasparente e cooperativo verso il contribuente) qualunque “parametro” vale come segnalatore di salvaguardia generale, non come strumento di “oppressione politico-fiscale” da parte di alcuni Stati verso altri.

Non appare fuori luogo, tuttavia, leggere anche una distinta sollecitudine pastorale, diretta all’interno della Chiesa: in particolare di quella italiana, di cui il Papa è primate come vescovo di Roma. Le relazioni fiscali fra Stato e Chiesa in Italia rimangono complesse. Le ha volute riassumere in breve, un paio d’anni fa, l’arcivescovo Nunzio Galantino, appena trasferitosi dalla segreteria generale della Conferenza episcopale italiana alla guida dell’Amministrazione del patrimonio della Santa Sede.

A proposito del “mito della Chiesa che non paga le tasse sugli immobili” Galantino ha anzitutto ricordato su Vita Pastorale che “la maggior parte degli immobili della Chiesa cattolica è composta da chiese, che non rendono nulla e per le quali bisogna, invece, sostenere elevati costi di manutenzione”. Ha aggiunto: “Sugli immobili dati in affitto, quelli cioè che rendono davvero – aggiunge – da sempre le imposte vengono pagate senza sconti o riduzioni”. E riguardo le polemiche alimentate in passato perché l’Ici prevedeva l’esenzione per gli immobili degli enti senza scopo di lucro, integralmente utilizzati per “finalità socialmente rilevanti”, Galantino ha sottolineato che “questo tipo di esenzione non riguarda solo gli enti appartenenti alla Chiesa cattolica”, ma ne hanno “sempre beneficiato e beneficiano tutte le altre Confessioni religiose, tutti i partiti, tutti i sindacati e tutte le realtà che realizzano le condizioni previste dalla legge”.

Puntualizzando che “l’esenzione non si è mai applicata alle attività alberghiere, anche se gestite direttamente da istituti religiosi”, il presidente dell’Apsa rammentava dati relativi alle tasse pagate nel 2019 in Italia dall’Amministrazione vaticana: erano stati versati 5.750.000 euro di Imu e 354mila euro di Tasi, per il 90% al Comune di Roma, dove gli immobili si trovano. A questi si aggiungevano 3,2 milioni di Ires, per un totale di oltre 9.300.000 euro. Senza contare – sempre con riferimento al Comune di Roma – i versamenti da parte della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, il Vicariato di Roma, la Cei, gli Ordini e le Congregazioni religiose”.

Già nel marzo 2020, in ogni caso, il presule dava notizia di una “review” completa degli asset immobiliari dell’Apsa: esercitando anche una forma di moral suasion esemplare verso le diocesi italiane (o di altri Paesi). Non perché esistano situazioni di dubbia “legalità” fiscale (per riprendere le parole di Papa Francesco davanti ai funzionari delle Entrate). Ma le “polemiche” (di natura squisitamente politica) cui accennava Galantino sussistono. Non si sono spente neppure dopo il Concordato-bis del 1984, peraltro siglato dalla Santa Sede con l’Italia in un contesto storico diverso dall’attuale. Non sorprende che Papa Francesco, lungi dall’ignorarle, abbia anzi voluto manifestare la sua attenzione e il suo pensiero: che non riguarda certo uno specifico trattamento tributario in Italia o altrove; quanto piuttosto il modo di porsi della Chiesa – di dottrina prima che di prassi – di fronte alla fiscalità civile. Non è certo di poco significato mentre la Cei si accinge a designare il successore del cardinale Gualtiero Bassetti alla presidenza della Cei; né – soprattutto – allorché la Chiesa italiana è nei fatti la prima sollecitata dal Papa a un intenso cammino sinodale.

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