Di tutti gli attentati di cui la cronaca ha dato conto negli ultimi sei anni, quello andato in scena nel pomeriggio di ieri a Parigi è probabilmente il più particolare, il più meritevole di essere scandagliato con attenzione per cogliere alcuni elementi rivelatori dell’intero ciclo terroristico che ha attraversato il suolo europeo durante gli anni dieci di questo ventunesimo secolo.
L’attentatore, infatti, altro non è che un poliziotto, uno di quei simboli del “sistema” che ha dovuto far quadrato intorno alla République assediata dal fanatismo islamista e dai gilet gialli, dai tagli alla spesa pubblica del presidente Macron e dall’attività ordinaria di polizia. Mikaël Harpon, questo il suo nome, non è tuttavia un poliziotto come gli altri: è un esperto informatico che lavora all’interno della questura parigina, uno che ha controbattuto all’ansia e al terrore di questi anni presidiando e scrutando l’infrastruttura di rete che, in qualche modo, ne ha permesso l’amplificarsi e il dipanarsi lungo tutto il suolo europeo: l’attentatore è dunque un patriota pienamente occidentale, un funzionario che sta a contatto con gli agenti e che ne subisce destino e pressioni.
Si potrebbe dire che questo quarantacinquenne che ieri, dopo vent’anni di polizia, ha ucciso tre agenti e un suo collega funzionario, altro non è che la dimostrazione che il terrorismo è un fenomeno anzitutto occidentale, che cova tra le stesse cellule dell’occidente non come una malattia che proviene da fuori, bensì come un’anomalia che insorge dal di dentro. La dinamica è quella delle cellule tumorali, irrazionali e prive di una sequenza logica individuabile, sequenza capace di far scattare le contromisure della prevenzione.
Ma il racconto non finisce qui: scegliendo di non indugiare sulle lacrime del giovane agente che ha ucciso l’attentatore al suo quarto giorno di servizio in polizia, è forse più interessante soffermarsi sul fatto che quest’uomo si fosse convertito diciotto mesi fa all’islam.
Anche in questo caso non ha senso mettere sotto processo questa conversione, quanto le ragioni che l’hanno spinta e motivata: quando si abbraccia una fede alla ricerca di una rivendicazione, in nome di una giustizia, quella fede smette di essere il motore di un processo di umanizzazione della persona e finisce per diventarne il detonatore degli istinti, delle rabbie e delle paure più profonde.
Mickaël Harpon era questo: una cellula impazzita di un sistema che ha trovato nella vendetta e nel risentimento l’unico modo per gridare al mondo la paura e l’ingiustizia che lo abitavano dentro. Lasciando noi sopravvissuti, ancora una volta, con tante analisi, ma con poche certezze. Sperduti nel tentativo di comprendere che cosa possa davvero dare al cuore dell’uomo quella pace e quella dignità che apra rabbia e dolore al dialogo e non alla cieca e folle violenza. Ma anche stavolta terminata l’emergenza la coltre degli occidentali preferisce chiudere tutte le domande. Impedendo al sangue dei nostri martiri di diventare profezia, indicazione, strada.