La legge sulla parità di salario approvata in Senato, con squilli di trombe, in verità è diventata una legge Omnia. Cioè ingloba nell’articolato tutte le disposizioni contenute nelle precedenti normative, finanziarie, compreso il Family act, le varie Leggi di bilancio precedenti, la Nadef, le missioni trasversali del Pnrr orientate a sviluppare le politiche per la parità di genere. In pratica, partendo dalla Costituzione Italiana, dalla proposta di Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio per rafforzare l’applicazione del principio della parità di retribuzione per lo stesso lavoro o lavoro di pari valore tra uomini e donne attraverso la trasparenza retributiva e meccanismi di attuazione COM/2021/93, arriva a modificare il Codice delle Pari Opportunità costola nell’ordinamento italiano della direttiva 2006/54/CE già attuata mediante il decreto legislativo 25 gennaio 2010, n. 5, che ha modificato il Codice stesso – decreto legislativo 11 aprile 2006 n. 198.
In buona sostanza, la legge comporterà molte pratiche amministrative e organizzative in corso d’opera (soprattutto in carico alle imprese) per l’ampliamento dell’obbligo di redazione del rapporto sulla situazione del personale nelle aziende, pubbliche e private, con più di 50 dipendenti (anziché più di 100, come attualmente previsto). Vengono poi introdotte, tra le fattispecie che danno luogo a discriminazione indiretta, anche gli atti di natura organizzativa o incidenti sull’orario di lavoro che, modificando l’organizzazione delle condizioni e il tempo del lavoro, mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso.
Arriva, poi, dal prossimo primo gennaio, la certificazione della parità di genere, che dovrà attestare, tra l’altro, le misure adottate dai datori di lavoro per ridurre il divario di genere in relazione alle opportunità di crescita in azienda, alla parità salariale a parità di mansioni, alle politiche di gestione delle differenze di genere e alla tutela della maternità. Certificazione accompagnata, peraltro, da un conseguente meccanismo di premialità consistente in uno sgravio contributivo fino a 50mila euro all’anno per ciascuna azienda (con limite di 50 milioni annui). Serviranno però uno o più Dpcm per definire i contenuti e i parametri di questa certificazione.
Si istituisce un “Comitatone”, Comitato tecnico permanente sulla certificazione di genere nelle imprese, con rappresentanti del Dipartimento per le pari opportunità, del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, del ministero dello Sviluppo economico, delle consigliere e dei consiglieri di parità, rappresentanti sindacali ed esperti individuati secondo modalità definite con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri o del Ministro delegato per le pari opportunità, di concerto con il ministro del Lavoro e delle Politiche sociali e con il ministro dello Sviluppo economico. Viene anche esteso il criterio di riparto degli amministratori delle società quotate volto ad assicurare l’equilibrio tra i generi, che trova applicazione per sei mandati consecutivi e in base al quale il genere meno rappresentato deve ottenere almeno due quinti degli amministratori eletti (ossia il 40%, ex art. 147-ter, c. 1-ter, del D.Lgs. 58/1998) anche alle società, costituite in Italia, controllate da pubbliche amministrazioni e non quotate in mercati regolamentati.
Sappiamo bene che i comitati tecnici o di monitoraggio sono spesso molto rappresentativi ma poco operativi: attenzione dunque a non duplicare gli organismi, vedi il ruolo del Comitato nazionale di parità, organo consultivo del Ministro con compiti di studio e di promozione in materia di parità nel settore della formazione professionale e del lavoro (artt. 8 e ss., D.Lgs. n. 198/2006, come modificato da D.Lgs. n. 151 del 2015) ricomposto nel 2019 esattamente dagli stessi componenti del Comitatone. Sappiamo altrettanto bene che di certificazioni di genere ne sono state tentate ben due negli anni passati con risultati deludenti, ma relativi alti costi, e che bisogna puntare sulle politiche per l’occupabilità femminile perché un minore divario retributivo di genere non si traduce in una maggiore parità. In alcuni casi, infatti, come quello italiano, divari retributivi più bassi tendono a essere collegati, tra l’altro, a una minore partecipazione delle donne al mercato del lavoro e alle specificità del settore pubblico e privato (il primo caratterizzato da una forte presenza femminile).
E bisognerà ben chiarire poi, con buona pace del sindacato consociativo, che la legge non pregiudica in alcun modo il diritto di negoziare, concludere e applicare contratti collettivi e di intraprendere azioni collettive conformemente al diritto o prassi nazionali.
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