Da qualche giorno il delitto di Partinico occupa il primo piano di tutti i servizi di cronaca: un uomo di cinquantuno anni, Antonino Borgia, imprenditore sposato da diciott’anni in seconde nozze con Maria, sgozza dopo una violenta lite l’amante di trent’anni, Ana Maria Lacramioara di Piazza, incinta del proprio assassino da quattro mesi e già madre di un ragazzino di undici anni.



Al legittimo orrore per l’efferato delitto si aggiunge, nelle cronache, un certo stupore per le dichiarazioni di Maria, che dice di non voler abbandonare il marito – nel frattempo reo confesso – e per quelle del padre di Antonio, che condanna il gesto ma stigmatizza “certe parole” che le donne sarebbero capaci di dire per mandare fuori di testa gli uomini che le amano e spingerli così nel baratro della follia e della violenza.



La cifra di questa vicenda, a prima vista complessa, è in realtà semplice: le persone che ci stanno accanto sono come uno specchio, un punto ineludibile, che ci spinge a fare i conti con noi stessi, a guardare chi siamo. Il figlio, il marito, la moglie, i genitori anziani o l’amico, come il collega di lavoro o il vicino di casa, ci sono stati messi accanto non per riempire il vuoto che abbiamo dentro, e neppure per soddisfare i nostri capricci, ma perché ciascuno potesse incontrare di più – incontrare sul serio – le cose per quello che sono, perché ciascuno potesse stare davvero di fronte a sé e alla realtà che ne caratterizza l’esistenza.



Ana Maria costringeva Antonio a fare i conti con sé, con le sue scelte, con i suoi errori. Ed è vero che la realtà può diventare fastidiosa da quanto è capace di metterci con le spalle al muro, ma la violenza non è mai una risposta, la violenza ci incastra ancora di più, ci rende definitivamente ostaggio di ciò che temiamo e da cui scappiamo, ossia l’incapacità di accoglierci e di amarci così come siamo. È questa impotenza dell’uomo ad accettare se stesso che fa dell’uomo uno schiavo: non avendo un grembo in cui poter essere sé, chiunque può farne saltare l’equilibro, l’insieme disperato di bugie e di giustificazioni con cui egli cerca di tenere assieme tutti i pezzetti della vita.

Senza una dimora la nostra esistenza diventa ostaggio di infinite “tane” che promettono “casa”, ma danno solo nascondigli utili a sottrarsi allo sguardo del reale che avanza e che ci chiede ragione dell’esistenza, di tutta la nostra esistenza.

Volesse il cielo che una mamma morta, un feto dilaniato, un ragazzo orfano e una moglie tradita fossero per tutti sufficiente monito contro l’individualismo e la solitudine disperata del nostro tempo! Ma qualcosa, purtroppo, ci dice che ancora numerosi lutti dovranno manifestarsi prima che l’umanità possa davvero ricominciare a riprendere sul serio il proprio grido di solitudine, il proprio drammatico e ineluttabile bisogno di una vera compagnia.