Il Parlamento europeo ha approvato il regolamento sul riconoscimento transfrontaliero della filiazione con 366 voti favorevoli, 145 contrari e 23 astenuti. Duplice l’obiettivo dichiarato esplicitamente: il primo obiettivo è garantire che tutte le coppie che hanno avuto figli in qualsiasi Stato europeo possano essere riconosciuti automaticamente come genitori anche nel proprio Paese, attraverso un “certificato europeo di filiazione”. Il secondo obiettivo è quello di offrire a tutti i minori gli stessi diritti previsti dalle leggi nazionali in materia di istruzione, assistenza sanitaria, custodia e successione. Il certificato europeo di filiazione dovrebbe ridurre la burocrazia e facilitare il riconoscimento della genitorialità nella Ue, senza sostituire i documenti nazionali; potrebbe essere utilizzato al loro posto, con il vantaggio di essere accessibile in formato elettronico in tutte le lingue dell’Ue.
Il nodo cruciale nel dibattito su di un aspetto così importante nella vita personale, familiare, sociale e politica di tutti è che l’accordo sulla versione finale della normativa richiede l’unanimità, una unanimità non scontata e non banale. Vale la pena cercare di capire da dove nascano le difficoltà ad accogliere questo nuovo regolamento, che sembra ispirarsi a due criteri generalmente accettati da tutti: il supremo interesse del minore e la sburocratizzazione nei modelli organizzativi.
Secondo la relatrice del regolamento, Maria-Manuel Leitão-Marques (S&D, Portogallo), “nessun bambino dovrebbe essere discriminato a causa della famiglia di appartenenza o del modo in cui è nato. Attualmente, i bambini possono perdere i loro genitori, dal punto di vista legale, quando entrano in un altro Stato membro. Questo è inaccettabile. Con questo voto, ci avviciniamo all’obiettivo di garantire che se si è genitori in uno Stato membro, si è genitori in tutti gli Stati membri”. Una affermazione netta, discutibile, che mescola fatti certi con altri che non lo sono affatto ed elabora una drammatica narrazione sulla sorte di bambini destinati ad essere sottratti alle proprie famiglie di origine, perché non hanno una madre e un padre che garantiscono per loro e per la loro origine.
Uniformare le procedure di riconoscimento dei figli in tutti gli stati dell’Unione Europea, come prevede l’attuale regolamento, renderebbe automaticamente legale anche la maternità surrogata, una pratica che in Italia è considerata illecita. Sembra che siano oltre due milioni le bambine e i bambini che in Europa rischiano di non vedere riconosciuti i loro genitori come tali in un altro Paese, mentre con il nuovo regolamento i governi dovranno accettare la filiazione stabilita da un altro Paese dell’Unione, indipendentemente dal modo in cui il bambino è stato concepito, nato o dal tipo di famiglia che ha.
Il quesito che si pone è: occorre considerare la certificazione proposta come un passo avanti nel riconoscimento della parità dei diritti di genitori e figli, o piuttosto come un via libera alla maternità surrogata?
Probabilmente si tratta di entrambe le cose, con la difficoltà obiettiva di segnare il confine tra una scelta per certi versi positiva e una deriva comunque rischiosa. Di fatto il quesito più importante è questo: riconoscere la genitorialità indipendentemente da come un bambino è stato concepito, da come è nato o dal tipo di famiglia in cui vivrà garantisce davvero al bambino l’esercizio di tutti i suoi diritti? È realmente irrilevante il modo in cui si viene al mondo e il tipo di accoglienza che si riceve alla nascita? È fin troppo ovvio che ad ogni bambino, una volta nato, vadano garantitigli stessi diritti previsti dalle leggi nazionali in materia di istruzione, assistenza sanitaria, custodia e successione, senza che ci siano discriminazioni di nessun tipo anche nei confronti dei figli di genitori dello stesso sesso.
Ma non discriminare non significa negare la prima e principale differenza che per un bambino è rappresentata dalla mancanza di un padre e di una madre, come quasi sempre accade nel caso della maternità surrogata o dell’utero in affitto, che dir si voglia. La maternità surrogata è stata più volte denunciata, anche da movimenti femministi, come una forma di moderna schiavitù delle donne. Ma il nuovo regolamento non fa menzione dei diritti delle donne, calpestati in quella che è a tutti gli effetti una gigantesca operazione di marketing. Il paradosso è che per non discriminare i bambini, indipendentemente dal modo in cui sono nati, si nega la più evidente delle differenze a cui questi bambini sono esposti: la presenza contemporanea del padre e della madre, la loro complementarietà, che comincia nel concepimento e accompagna il bambino per tutta la vita. Si trasformano quelle che potrebbero essere eccezioni, ognuna delle quali con una sua storia specifica, in una regola generale che stravolge un sistema consolidato nei secoli.
Si semplifica la burocrazia, ma per l’ennesima volta si mortificano i diritti delle donne; si mette in pole position la parità dei diritti dei bambini, ma si nega in radice che il modo di essere concepiti, il modo di nascere, e il modo di essere accolti nei famosi primi 1000 giorni di vita dei bambini, marca una differenza insanabile. E soprattutto non si pone neppure il dubbio che tutto ciò potrà avere delle conseguenze nella loro vita. Non ci sono studi, ricerche di nessun tipo, né di tipo psicologico o sociologico, che ci dicano se e quali saranno le conseguenze che tutto ciò potrà avere nella loro vita.
L’approccio ideologico a negare la differenza non permette di cogliere la complessità del problema, per cui viene meno anche il pensiero della complessità, in una semplificazione che corre il rischio di creare nuovi problemi. Il no problem ideologico votato a maggioranza dal parlamento europeo ci obbliga a chiederci: ma che Europa vogliamo che nasca dalle prossime elezioni?
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