Un imprenditore si trova nella necessità di cercare di salvare il posto di lavoro dei propri dipendenti nonostante la crisi aziendale che si è abbattuta sulla sua impresa e che ne giustificherebbe invece il licenziamento, perché i costi sono aumentati drammaticamente e gli utili calano. Rispolverando il motto “lavorare meno, lavorare tutti”, fa due conti e giunge alla conclusione che, riducendo l’orario di lavoro ai propri dipendenti, e diminuendone dunque il “costo” aziendale, potrà evitare di licenziarli. Alcuni dipendenti rifiutano però la soluzione proposta dall’imprenditore e non accettano di modificare il proprio orario di lavoro. Il datore di lavoro non ha scelta, procede al licenziamento di chi ha opposto il proprio rifiuto, salvando i restanti posti di lavoro (e l’azienda).



Senonché, la legge non “sembra” essere d’accordo con la linearità della soluzione trovata dall’imprenditore.

L’art. 6 del D.Lgs. n. 81/2015 prevede che “il rifiuto del lavoratore di concordare una variazione dell’orario di lavoro non costituisce giustificato motivo di licenziamento“. Anche l’art. 8 del medesimo D.Lgs. 81/2015, stabilisce (più in generale) che “il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento“. La ratio di queste due norme (che invero recuperano principi già sanciti dalla precedente normativa del 2000) è facilmente intuibile: ogni mutamento dell’orario di lavoro (che sia una variazione della fascia oraria per i lavoratori part-time o che sia il passaggio dal full-time al part-time e viceversa) presuppone un accordo tra il datore di lavoro e il lavoratore (e, in definitiva, il consenso di quest’ultimo). Diversamente, la decisione del datore di lavoro (parte contraente “forte” del rapporto) potrebbe cadere nell’arbitrio.



Ma allora: com’è possibile conciliare il ragionevole interesse del datore di lavoro a salvare l’azienda e i lavoratori con una normativa che pare vietare il licenziamento del dipendente che si rifiuta di modificare l’orario di lavoro?

Un aiuto a risolvere questa contraddizione viene dalla giurisprudenza, che da diversi anni ha cominciato una “lunga marcia” di avvicinamento alla soluzione del problema (seppur trattando aspetti di volta in volta differenti).

In particolare, con sentenza n. 14833 del 2012, la Corte di Cassazione aveva ritenuto “illegittimo il licenziamento del dipendente part-time non sorretto da giustificato motivo oggettivo ma adottato solo in ragione del rifiuto del lavoratore di modificare l’orario di lavoro”. In questo caso, la Corte nel dichiarare illegittimo il licenziamento, aveva però distinto il tema del licenziamento ritorsivo (ovvero intimato solo in ragione di un comportamento del lavoratore non gradito al datore di lavoro e costituto dal rifiuto di accettare il part-time) da quello della sussistenza o meno di un motivo oggettivo che giustificasse la conversione del rapporto di lavoro.



Anche la giurisprudenza di merito ha esaminato la problematica, seppur sul diverso versante della “fascia oraria” di lavoro. In particolare, con sentenza del 7 maggio 2019, il Tribunale di Ivrea aveva chiarito che la citata normativa “non sancisce un divieto assoluto” “di risoluzione del rapporto di lavoro. Il licenziamento non può essere fondato sul diniego in sé per sé considerato, ma non è precluso al datore di lavoro l’esercizio del recesso quando il rifiuto alla proposta di trasformazione entri in contrasto con le ragioni di carattere organizzativo che, ai sensi dell’art. 3 legge 604/1966, possono integrare un giustificato motivo oggettivo di licenziamento“.

Da ultimo, con la sentenza del 9 maggio 2023, n. 12444 della Corte di Cassazione, il percorso sembrerebbe essersi completato. Nel caso trattato dalla Corte, il datore di lavoro (alle prese con una riorganizzazione della propria attività di impresa) aveva licenziato una dipendente che si era rifiutata di accettare la conversione del rapporto di lavoro da full-time a part-time. Il licenziamento veniva impugnato e poi dichiarato illegittimo dal Tribunale di primo grado: non perché scaturente dal rifiuto della lavoratrice, quanto piuttosto perché la ragione oggettiva sottesa non era stata ritenuta sufficiente a giustificare il licenziamento. La dipendente impugnava allora la decisione del Tribunale e chiedeva che il licenziamento venisse dichiarato nullo o inefficace in quanto derivante da un motivo illecito, costituito dalla “ritorsione” del datore di lavoro nei suoi confronti per non aver accettato la trasformazione del rapporto in part-time.<

La Corte di Cassazione (del tutto in linea con la sentenza d’appello) ha rigettato le doglianze della lavoratrice in quanto veniva accertato che il licenziamento non era stato “intimato a causa del rifiuto, ma a causa della impossibilità di utilizzo della prestazione a tempo pieno e del rifiuto di trasformazione del rapporto in part-time“. Secondo la Corte “il rifiuto del part-time non costituisce di per sé giustificato motivo oggettivo di licenziamento, ma solo se la richiesta datoriale è giustificata da esigenze obbiettive“. In sostanza, la Corte ha osservato che “l’illegittimità del licenziamento per motivo oggettivo a causa del rifiuto opposto dal dipendente al part-time non esclude la sua giustificatezza quando la richiesta di part-time sia stata fatta al dipendente (e da questi rifiutata) per esigenze obbiettive dell’impresa”.

Insomma: se “il licenziamento non è intimato a causa del rifiuto, ma a causa della impossibilità di utilizzo della prestazione a tempo pieno e del rifiuto di trasformazione del rapporto in part-time“, allora il licenziamento che segue questo rifiuto è legittimo.

L’approdo della Corte Suprema è davvero ragionevole, riuscendo a coniugare tanto le esigenze organizzative dell’impresa quanto la tutela del posto di lavoro, e non entrando in contraddizione con quanto dispone la legge.

Non possiamo che approvare la conclusione a cui è approdata la Corte di Cassazione perché, quando si tiene conto di tutti i fattori in giuoco (l’interesse del datore di lavoro, le esigenze di natura oggettiva inerenti alla organizzazione dell’impresa e le esigenze di conservazione del posto da parte del lavoratore) la soluzione è sempre quella giusta. C’è da augurarsi che si tratti di una “rondine che fa primavera”.

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