Il dibattito attorno all’opportunità o meno dell’approvazione di un salario minimo legale (proposta unitariamente presentata dalle forze di opposizione, eccetto Italia Viva) ha polarizzato il confronto recente in materia di lavoro. La contesa mediatica è facilmente vinta da chi sostiene gli effetti salvifici di un pavimento stipendiale di 9 euro lordi imposto a qualsiasi posizione lavorativa: il messaggio è semplice e accattivante, costruito attorno a un (doveroso!) desiderio di maggiore dignità del lavoro. Di contro, il confronto tecnico/operativo vede invece in vantaggio gli oppositori di questa soluzione (attenzione, lo scettiscismo non è verso l’esigenza di meglio retribuire le persone, bensì verso la soluzione legislativa proposta per conseguire l’obiettivo), che mostrano come le tutele della contrattazione siano migliori di quelle della legge e come il lavoro povero sia in larga prevalenza conseguenza di situazioni lavorative nere, grigie, discontinue e non subordinate, quindi non condizionabili da alcun salario minimo legale.
Se n’è parlato anche su queste pagine, non è perciò opportuno ritornare su un dibattito che, in fondo, risale fino all’inizio della contrattazione collettiva e che contiene una ancor più profonda alternativa tra il dirigismo legislativo e la sussidiarietà dei corpi intermedi. È opportuno, invece, indagare quali siano le proposte alternative di chi si oppone al “toccasana” legislativo in materia di salario. Tra queste, l’associazione di rappresentanza più combattiva e intellettualmente creativa è certamente la Cisl, che da qualche mese sembra “buttare fuori” la palla dal campo del dibattito sulle retribuzioni povere, sulla spirale inflazionistica, sulle fatiche della contrattazione.
Il 1° giugno, infatti, la Cisl ha avviato la campagna di raccolte firme a sostegno della proposta di legge di iniziativa popolare “La Partecipazione al Lavoro. Per una governance d’impresa partecipata dai lavoratori”. Il sindacato ha sei mesi per raccogliere almeno 50.000 firme certificate, funzionali alla presentazione della proposta in Parlamento.
In estrema sintesi, il sindacato cattolico vuole dare attuazione all’articolo 46 della Costituzione che prevede il diritto dei lavoratori (non la facoltà!) a partecipare alla gestione dell’azienda, in armonia (e non in conflitto!) con le esigenze della produzione. Si tratta, storicamente, della geniale e sintetica individuazione di una terza via tra il fideismo cieco verso la mano invisibile del mercato (per il quale sarebbe inconcepibile il “diritto” alla partecipazione) e il dirigismo di chi è (era) convinto che i lavoratori debbano rivoluzionare l’ordine costituito prendendo possesso dei mezzi di produzione (altro che “armonia” con l’impresa). Tutta la nostra Costituzione si muove, con qualche svarione, sul vertiginoso crinale equidistante dai modelli economici emergenti nel primo dopoguerra, scegliendo la via sussidiaria della Dottrina sociale della Chiesa o, più laicamente, l’economia sociale di mercato (ahinoi, scegliendola concettualmente più che realizzando davvero un sistema economico e sociale così caratterizzato).
Non tutti sanno che l’articolo 46 è ab origine un’intuizione dei sindacalisti cattolici, in primis Gronchi (primo firmatario dell’emendamento da cui è nato il testo definitivo), ma anche Pastore (tre anni dopo l’emendamento fondatore della Cisl), Storchi (presidente delle Acli) e Fanfani (uomo di punta della Democrazia Cristiana), co-firmatari della proposta.
L’operazione della Cisl può quindi apparire come un ritorno alle (proprie) origini. È, tuttavia, molto di più: è una sfida “anti-populista” lanciata a chi preferisce la velocità e l’immediatezza degli slogan ideologici e delle semplificazioni in materia di lavoro rispetto al coraggio di una visione, di una proposta radicata in un’idea di economia e persona.
Che senso ha oggi proporre di coinvolgere i lavoratori nelle sedi decisionali delle imprese (Consiglio di amministrazione o Consiglio di sorveglianza, c.d. partecipazione gestionale) o prevedere incentivi fiscali e contributivi per la distribuzione degli utili ai dipendenti o la cessione di azioni (c.d. partecipazione economico-finanziaria) o incoraggiare la costituzione di comitati paritetici per il miglioramento dei prodotti o dei processi aziendali (c.d. partecipazione organizzativa) o, in ultimo, obbligare le imprese non soltanto a informare, ma anche consultare i propri dipendenti in occasione di decisioni rilevanti per il futuro della azienda (c.d. partecipazione consultiva)?
La Cisl, evidentemente, pare non accontentarsi di slogan mielosi e colorati come “tutto intorno a te”, “persone oltre le cose”, “people first” ecc… e sfida imprese e politica a concretizzare le buone intenzioni pubblicitarie ed elettorali in una legge di sostegno alla cultura partecipativa (politica) e in accordi che sperimentino forme di cooperazione decisionale sui luoghi di lavoro (aziende).
Il tentativo è certamente più difficile da raccontare che qualsiasi manifestazione di piazza a favore del salario minimo, ma probabilmente sarebbe più efficace per alzare il livello retributivo dei lavoratori italiani, oltre che decisamente più coinvolgente dal punto di vista culturale e ideale.
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