Come capita in occasione simile, dopo i recenti scontri tra studenti e polizia nell’Università La Sapienza di Roma, da ogni parte del dibattito politico è stato (ri)tirato in mezzo il celebre Pier Paolo Pasolini: a parlarne, tra i tanti, c’è stato anche il regista Davide Ferrario sulle pagine di “La lettura” (inserto settimanale del Corriere) che ha cercato di sfatare quel mito secondo cui lo scrittore novecentesco odiasse, da un lato, l’aborto e patteggiasse, negli scontri universitari, per i celerini. Un lungo volo pindarico che è stato, poi, ripreso dal quotidiano La Verità, che a contro smentito le parole di Ferrario su Pasolini, dimostrando che è il regista ad aver capito male.
Partendo dal principio, però, Ferrario nel suo lungo ragionamento (spiega Giuseppe Pollicelli sulla Verità) parte dal denunciare “il cattivo uso” che si fa del pensiero dello scrittore e, sul tema dell’aborto, riconoscendo che effettivamente vi era contrario, sostiene che lo fosse “perché, nella sua visione, era un disincentivo all’omosessualità“. Per quanto riguarda, invece, l’appoggio per i celerini, il regista ricorda che “l’ultimo a dire che ‘Paolini stava con i poliziotti’ è stato Antonio Tajani“, e chiedendosi se sia effettivamente vero, si risponde da solo con un secco: “No, non lo è mai stato“. Secondo lui, infatti, il suo sostegno si limitava al fatto che “li considera sfruttati dal potere, quello incarnato dai ministri” e non tanto alle ragioni di parte degli scontri.
La Verità smentisce Ferrario: “È lui che fa un cattivo uso di Pasolini”
Tutte posizioni che, secondo La Verità, finiscono per ottenere l’effetto che Ferrario denuncia nel suo pezzo: fare un “cattivo uso” di Pasolini, del suo pensiero e delle sue parole. Oltre a quello che crede (o vuole far credere) il regista, infatti, lo scrittore sull’aborto ebbe a dire parole molto dure e, in un’editoriale del Corriere del 1975 scrisse, chiaramente, che: “Sono però traumatizzato dalla legalizzazione dell’aborto, perché la considero, come molti, una legalizzazione dell’omicidio“. Lo definì, addirittura, “una colpa e, quindi, un problema della coscienza”.
Più sottile, invece, fu la posizione di Pasolini sui celerini, perché effettivamente in una sua famosa poesia del 1968 definì gli studenti ribelli come parte di quella borghesia che detestava a differenza dei poliziotti, che erano l’incarnazione del proletariato schiacciato dai borghesi. Posizione che Ferrario si guarda dal ricordare, ma che fu poi ritratta dallo stesso scrittore quando, dopo pochi mesi, definì la poesia “brutta” notando che si era inimicato tutto il movimento studentesco, estremamente diffuso nell’Italia sessantottina.