Le ripetute notizie dei massacri di civili inermi a Bucha e in altre città ucraine suscitano dolore e raccapriccio. Lo sdegno e la condanna nel mondo sono unanimi. Siamo di fronte all’impotenza dell’Onu, alle difficoltà che incontra la Croce Rossa per i corridoi umanitari e alla sofferenza del popolo ucraino, il quale subisce un’ingiusta aggressione che non si sa quando avrà termine.
La lotta per la libertà del popolo ucraino che esercita il suo diritto alla sovranità statuale si scontra con l’ostilità ininterrotta e crescente della Russia. La diplomazia internazionale non riesce a imbastire trame positive, mentre crescono i rischi a tutti i livelli. L’ideologia del Russkij mir (mondo russo) sembra impenetrabile alla voce dell’Altro. Un periodo drammatico in cui ci troviamo a vivere la Pasqua. Ne parliamo con Lubomir Žák, professore nella Palacky University di Olomouc (Cechia), già ordinario alla Pontificia Università Lateranense, specialista di filosofia russa e di teologia luterana.
Alla fine de I fratelli Karamazov, dopo un percorso di sofferenza in cui non “va tutto bene” come in un happy end (un suicidio, un’ingiusta condanna, un processo fallimentare, ecc.), Alëša dice: “senza dubbio risusciteremo, senza dubbio ci rivedremo, e con gioia e allegrezza ci racconteremo tutto il passato”. Con quale coscienza e sicurezza possiamo anche noi affermare questo in un tempo in cui si vede un male terribile in atto?
Bisogna cogliere la profonda intuizione di Dostoevskij, il quale volle che fossero proprio queste parole del ragazzo Alëša a essere inserite nella conclusione del romanzo. C’è da dire che Alëša, il più giovane ma più saggio di tutti i Karamazov, le pronuncia in chiusura di un appassionato discorso funebre, fatto in occasione della sepoltura di Iljúšečka, dolce bambino, vittima della situazione di povertà e di degrado della sua famiglia. Non c’è prete, non ci sono altri adulti intenzionati a parlare. Anzi, Dostoevskij non li vuole nemmeno menzionare. Come se essi fossero quella parte dell’umanità che ha fallito nell’affrontare la vita, causando ferite su ferite a sé e agli altri. Alëša è circondato soltanto da bambini e ragazzi, divenuti amici grazie allo sforzo di aiutare Iljúšečka. Sono pronti a giurare che salvaguarderanno il ricordo di tutto ciò che hanno vissuto grazie a lui, per essere persone nuove, migliori. Le parole di Alëša sono rivolte a tutti loro, per risvegliare la speranza nei cuori della nuova generazione che lotterà per un mondo più buono, più giusto. Infatti, dice anche: “Ah, ragazzi, cari amici miei: non abbiate paura della vita! Come è bella la vita quando si fa qualcosa di buono e di vero!”. Inoltre vuole ribadire il valore dell’amicizia, perché il bene non trionferà laddove non c’è la concordia. Per questo esclama: “Andiamo per mano!”. E loro rispondono: “E sarà così per sempre, tutta la vita per mano!”.
Che valore hanno queste parole?
Sono un testamento spirituale di Dostoevskij, uomo che ha vissuto molti drammi personali e conosciuto un mondo fatto di contraddizioni, ingiustizie e violenze. Ne traspare una limpida sapienza di vita e di fede, in piena sintonia con le parole di Gesù: “Se non cambiate e non diventate come i bambini, non entrerete nel Regno dei Cieli” (Mt 18,3). Dostoevskij sapeva che il Regno dei Cieli è sempre in mezzo a noi, nonostante l’oscuramento che avvolge il mondo, l’umanità. Bisogna però ridiventare, spiritualmente, bambini, riconquistando insieme l’innocenza del cuore e dello sguardo. Ecco il messaggio per i nostri tempi!
Sant’Epifanio nella sua omelia del Sabato Santo sottolineava che la terra ha tremato e si è calmata, perché Dio si è addormentato nella carne. Oggi, però, la terra del cuore trema per il fragore delle armi e per il sussulto dell’orfano e della vedova.
Quando il corpo morto di Gesù giaceva nella tomba, le sue labbra non si muovevano più. La morte le ha sigillate appena sulla croce è risuonato il suo ultimo grido, parte finale del discorso rivelativo su Dio come Padre. Sì, se in quelle ore si desiderava udire la voce di Dio sulla terra, sembrava regnasse solo un silenzio tombale. Eppure esso era solo apparente. La fede cristiana, infatti, testimonia che il Figlio di Dio ha continuato a parlare, predicato il Vangelo della salvezza all’umanità radunata in quel misterioso trascendente spaziotempo, che fa anch’esso parte della complessità del mondo creato. Tradizionalmente lo si chiama “inferi”. La Parola eterna e incarnata, calpestata, rifiutata, umiliata, ha così continuato la sua missione: testimoniare il Padre come “principio personale” della comunione universale e cosmica, come tessitore di un’infinita e luminosa rete fatta di esseri dinamicamente relazionati, a mo’ dell’infrangibile unità tra Padre e Figlio. La Parola eterna compirà tale missione in ogni tempo e nello spazio di ogni situazione storica, sia anche la più drammatica e terrificante. Mi colpisce come questa verità è stata percepita da numerosi martiri cristiani. Mi chiedo se non sia opportuno che il giorno del Sabato Santo venga pensato e soprattutto vissuto come occasione di esercitare l’udito a quella dimensione del parlare di Dio in mezzo all’umanità, che è da cercare sotto il velo del “silenzio esterno”. Un parlare altrettanto reale e salvifico. Nella vita ho conosciuto uomini e donne che sono riusciti a diventare uditori della Parola di Dio viva, vivificante e consolante in mezzo a situazioni disperate, infernali, sì, anche dal di dentro dell’inferno della guerra. Lo si vedeva nei loro occhi.
La Russia sta rinunciando al suo Logos per un’ideologia neoconservatrice e imperialistica. Eppure grandi teologi russi del XX secolo hanno sottolineato la dimensione kenotica del Dio fatto carne. Non il potere imperativo e il comando violento, ma l’amore struggente. Cosa vuol dire, oggi, di fronte alla sofferenza innocente messa in luce da Dostoevskij, il grido di Gesù in Croce? È ragionevole abbandonarsi all’annuncio del Risorto che viene fatto dalla Chiesa?
Le riflessioni di Dostoevskij sul perché della sofferenza degli innocenti, fatte nei Fratelli Karamazov, sono agghiaccianti per la descrizione realistica, quasi documentaristica di alcuni casi concreti in cui tale sofferenza si è verificata, ma altresì per il fatto che alla domanda su dove è Dio, quando un innocente soffre, non si trova un’argomentata risposta teologica. Come se essa non esistesse. Anzi, come se la verità fosse dalla parte dello statista convinto che nel mondo le cose andranno sempre male per le persone prive di potere, di elevata condizione sociale, di conoscenze influenti. Eppure Dostevskij non ci lascia senza una risposta.
Pensa ad Alëša?
Sì. Alëša, con la sua limpida fede in Dio formatasi grazie al buon abbà Zosima, ne è una prima versione personalizzata. Come se, descrivendo i suoi modi gentili di trattare gli altri, di consolarli, di stare accanto a loro, volesse affermare che di fronte a ogni ingiustizia, a ogni persona distrutta dalla cattiveria dell’altro vale l’omnia vincit amor. Ma una seconda risposta va cercata nella Leggenda del grande inquisitore. Il vecchio inquisitore può avere l’impressione di avere Cristo in pugno, di poterlo tenere in carcere, forse anche ucciderlo, ma la verità non è dalla sua parte. La superiorità è tutta di Cristo, per il suo infinito amore verso ogni uomo, incluso il superbo e arrogante prelato. Senza ammetterlo apertamente, questi comprende di essere stato vinto dal suo silenzioso prigioniero. Il grido del Crocifisso “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato!” non è altro che la testimonianza estrema di questo suo amore rivolto verso ogni essere umano. Le successive parole del Crocifisso: “Padre, nelle tue mani confido il mio spirito” ne sono poi un essenziale completamento. Rivelano che l’amore di Cristo è, sì, un vero e proprio svuotamento di sé a favore dell’altro, ma contemporaneamente è vissuto come un totale dono di sé al Padre, fino all’ultimo respiro. Perché loro due sono sempre uno. La Risurrezione è l’amore vivificante del Padre che risponde; è lo Spirito ridonato. La Chiesa, tutte le comunità cristiane sono chiamate ad annunciare questa verità e la sua perenne attualità. Mi posso abbandonare ad essa, la posso accogliere, ma non razionalmente come una teoria, un costrutto di speculazione. Serve il desiderio di voler partecipare per grazia all’intensità dell’amore del Crocifisso, della sua fiducia nel Padre. Come nel caso di Cristo, anche nel caso nostro la risposta del Padre non tarderà. Esperienze come queste sono anticipazioni, a volte solo istantanee, di un evento cosmico che sarà compiuto alla fine dei tempi. Tuttavia, si tratta di esperienze vere. Di conseguenza, come san Paolo, anche noi impareremo a parlare della risurrezione non solo al futuro, ma anche al presente (Col 2,12; 3,1; Fil 3,10).
La “Deposizione di Gesù” di Hans Holbein, diceva un personaggio de L’Idiota di Dostoevskij, può far perdere la fede. La crudeltà cieca della natura sull’uomo più buono, la violenza di Caino contro Abele resa presente dai corpi di civili uccisi o schiacciati da carri armati come può non vincere, quando sembra evidente tutt’altro?
Se quella che vediamo, osserviamo empiricamente, tocchiamo con i sensi è l’unica dimensione reale del nostro mondo, allora siamo nati per disperare. Se la vita umana è costitutivamente un fenomeno esclusivamente empirico, in tal caso è difficile essere ottimisti. Il male generato dall’essere umano è sempre dietro l’angolo e ciclicamente si ripresenta con la voglia di organizzare “grandi eventi”. La storia ce ne informa in modo ben documentato. La fede cristiana offre una visione più complessa, sottolineando la simultaneità dei numerosi strati che fanno parte della realtà delle cose, degli esseri umani, dei fenomeni sociali, degli eventi che accadono. Dice che in esse esistono strati, dimensioni, profondità, dinamiche – positive o negative, vitali o distruttive – di natura anche trascendente. Da questo punto di vista ogni esistente, ogni cosa, persona, fenomeno sociale, ecc. sono in sé “più grandi e profondi” di come appaiono empiricamente. Fa parte di questa comprensione della complessità un’altra misurazione della durata della vita: la fede protrae la sua linea cronologica oltre il momento della morte corporea. Pavel Florenskij amava dire che i cristiani possiedono una visione del tutto paradossale del mondo e della vita: di fronte alla morte essi cantano il gioioso Alleluia, certi della continuazione dell’esistenza di ogni defunto. Radicato in questa fede, egli teneva sulla scrivania la foto del padre deposto nella bara aperta. Per la stessa convinzione, Sergej Bulgakov appese sulla parete la foto del figliolo Ivan, steso sul letto di morte. Entrambi possedevano altre foto dei loro cari, più ordinarie, meno urtanti. Ma tutti e due preferivano esporre proprio queste. Pur radicati nella scienza, abituati a indagare e amare la vita nella sua concretezza, erano proiettati verso la sua parte trascendente. Anche di fronte ai drammatici eventi storici dei loro tempi.
Ce ne darebbe un altro esempio?
È solo grazie allo stesso sguardo di fede, che John Roland Tolkien poté inviare al figlio Christopher, durante la seconda guerra mondiale, le seguenti parole di consolazione: “Nessun uomo può giudicare quello che sta veramente succedendo al momento attuale sub specie aeternitatis. Tutto quello che sappiamo, e anche questo in larga parte per diretta esperienza, è che il male agisce con grande potenza e successi continui – inutilmente: preparando sempre e solamente il terreno perché il bene, inaspettatamente, germogli”.
(Vincenzo Rizzo)
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