Il 2 marzo del 2011, esattamente dieci anni fa, Shahbaz Bhatti, ministro del Pakistan per le minoranze religiose, il primo cattolico eletto a tale ruolo, veniva ucciso da alcuni fondamentalisti islamici che da tempo lo minacciavano per il suo impegno a difesa degli accusati di blasfemia, tra cui Asia Bibi, allora condannata a morte e scarcerata solo nel 2018.
Uomo di fede profonda e indefessa, tanto che è stata aperta una causa di beatificazione, come ci ha detto nel corso di questa intervista il fratello Paul Bhatti, chirurgo e presidente della Shahbaz Memorial Trust, una fondazione in onore del fratello. Paul ripete quello che diceva Shahbaz: “Voglio solo un posto ai piedi della croce”. “Mio fratello considerava il suo lavoro la sua Via Crucis, era pronto a morire per Gesù. Proprio durante una Via Crucis aveva avuto questa illuminazione, che dovesse dedicare la sua vita ai sofferenti, alle vittime di ingiustizia e discriminazione”.
La legge sulla blasfemia, ci ha detto ancora, “in realtà non viene mai applicata dai tribunali pachistani, ma anche se fosse abolita le persone sarebbero comunque uccise per strada come successo a mio fratello. Quello che deve cambiare è la mentalità radicale, violenta, terroristica che purtroppo appartiene a un’intera generazione che è stata cresciuta in questo modo e ancora oggi i bambini vengono cresciuti a odiare i diversi da loro”.
Dieci anni dopo l’uccisione, suo fratello viene ancora ricordato?
Sì, per l’occasione è stata fatta una celebrazione a livello mondiale a cui hanno preso parte tra gli altri con un messaggio il premier canadese Justin Trudeau, l’arcivescovo di Canterbury, Asia Bibi, il rappresentante delle Nazioni Unite per la libertà religiosa, l’ex rappresentante della camera dei deputati americani, e anche rappresentanti del parlamento tedesco, di quello inglese, del Parlamento europeo, e varie alte personalità religiose di tutto il mondo, persone che aveva conosciuto durante la sua carriera politica e umanitaria.
Suo fratello diceva che considerava il suo lavoro una Via Crucis. Era quindi pronto a dare la sua vita per la sua missione di pace?
Era cresciuto in una famiglia cattolica, aveva sempre avuto la capacità di riconoscere Dio in chiunque incontrasse. Raccontò poi che durante un Venerdì Santo aveva avuto questa ispirazione, seguire la Via Crucis dedicando la vita alle persone bisognose, quelle che non possono parlare in loro difesa, o sono perseguitate. Da cattolico la sensibilità iniziale andò verso la minoranza cristiana, anche perché la più perseguitata, ma in seguito si è estesa a tutti, anche ai musulmani soggetti a discriminazioni e persone di qualunque religione perché, diceva, l’ingiustizia verso un uomo è ingiustizia contro tutti gli uomini.
In questi ultimi dieci anni c’è stato qualche cambiamento nei confronti della legge sulla blasfemia?
Dopo la sua morte c’è stata un’evoluzione nel mondo intero che ha capito i problemi del fondamentalismo e del terrorismo religioso. In Pakistan non c’è stato ancora un cambiamento radicale perché abbiamo a che fare con una generazione cresciuta in un’ideologia estrema che ancora muore e uccide in suo nome. Nonostante tutto vediamo che gli arresti per blasfemia sono diminuiti.
E non è un segno positivo?
Sì, bisogna poi dire che chi viene arrestato con l’accusa di blasfemia viene poi sempre rilasciato. Ho sempre detto che sarebbe giusto abolire questa legge, ma non è il mio obbiettivo principale.
In che senso?
Il problema è che anche se viene abolita, ma non cambia la mentalità della gente, le persone saranno ancora vittime della violenza, verranno uccise per strada. Nessuno è stato ucciso da un tribunale, quelli che sono morti sono stati uccisi dalla popolazione. Deve cambiare la mentalità, l’educazione, l’estremismo che terrorizza tutto il mondo.
In questo senso papa Francesco sta portando avanti un cammino preciso di dialogo interreligioso, incontrando i principali leader islamici. È questa la strada?
Sì, il dialogo è sempre l’unica via di uscita. I problemi politici, religiosi o sociali vengono risolti con il dialogo. In Pakistan l’inizio del dialogo è stato iniziato proprio da mio fratello, oggi ci sono tantissime organizzazioni, ma non c’è una agenda precisa. Se ci troviamo in dieci o venti persone a dialogare, diamo un’immagine positiva, però restano gli ostacoli da risolvere. Il dialogo è utile quando queste difficoltà vengono rimosse e tutte le persone mostrano determinazione di opporsi alla violenza. Ci sono ancora troppi bambini educati nell’odio. Se non si percepisce la volontà di cambiare, allora il dialogo non ha alcun senso.
Ha delle speranze che il suo paese possa cambiare?
Fino a quando le persone si recano nelle loro chiese con il terrore di morire uccise da una bomba, come è successo tante volte, c’è ancora tanta strada da fare. Questa violenza deve finire, non bastano misure di polizia, bisogna agire perché questa ideologia del male venga distrutta o ridotta. Il Pakistan ha tantissimi problemi, anche economici, è un paese isolato, il dialogo deve mirare a un cammino importante dove si intervenga a molti livelli.
È la seconda Pasqua con la pandemia del Covid-19, che cosa significa per lei?
Provo tanta sofferenza per tutte le vittime e le loro famiglie nei paesi poveri che sono diventati ancora più poveri. Per noi credenti Pasqua è una speranza di vero amore per l’uomo. Questa Pasqua dovrebbe darci la speranza di uscire da questa pandemia. Abbiamo imparato che il mondo è imprevedibile, non possiamo programmare come vada grazie alle nostre capacità scientifiche o intellettuali. Non sono sufficienti quando succedono cose come queste. Bisogna essere preparati a vivere con le risorse che abbiamo e affrontare le situazioni che accadono, l’uomo è fatto per affrontare queste sfide. Pasqua oggi è una prova che ci dice che pur soffrendo vediamo la luce della Resurrezione.
(Paolo Vites)
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