Già nel precedente articolo “La giustizia? O diventa “carne”, o non c’è” avevamo accennato alla nozione veterotestamentaria di tzedakàh (rettitudine, capacità di riequilibrare l’ordine del mondo), un concetto che va oltre la norma e s’incarna in atti, in dimostrazioni operanti di salvezza.

Avevamo anche accennato a come il Nuovo Testamento aggiunga un ulteriore elemento deflagrante: Dio (il dio a cui dobbiamo conformarci per essere giusti e felici, qui, in questo mondo) opera con radicale misericordia, antepone illogicamente il perdono al pentimento e alla conversione.



Cristo, infatti, è venuto per liberarci dagli automatismi (etologici, psicologici, sociali, politici, culturali) che non ammettono l’eccezione. Nello specifico, la vendetta, nelle sue articolazioni private o pubbliche, è sempre un’azione puramente reattiva. È sempre la semplice meccanica risposta all’inosservanza della legge. È prevedibile, e perciò spesso minutamente calcolata. Ben che vada, però, è una soluzione che lascia le cose come stanno. Il perdono, invece, è sempre un atto inaspettato, il nucleo instabile di possibili radicali cambiamenti.



D’altra parte, è l’uomo, ogni singolo uomo, a essere un potenziale creatore di novità che sbaragliano l’ordinario andamento delle cose. Il perdono, peraltro, stabilisce sempre relazioni personali. Si perdona qualcuno che ha fatto qualcosa, non genericamente il male compiuto.

Nel romanzo Il dottor Živago, alla luce degli orrori dell’ideologia, Pasternak sintetizzava: “Per operare il bene, alla coerenza dei princìpi manca l’incoerenza del cuore, che non conosce casi generali, ma solo il particolare, ed è grande perché agisce nella sfera del piccolo”.

È nell’incontro con l’altro con la “a” minuscola che c’imbattiamo nell’Altro con la “A” maiuscola. E anche viceversa: è solo nell’incontro con il Mistero, con l’Infinito fattosi uomo, con Cristo, che percepiamo l’uomo e quindi anche noi stessi. È il volto dell’altro che ci rivela il nostro vero io. Attraversando l’esperienza del limite e dell’alterità, accediamo finalmente all’umano.



Sono state le controversie cristologiche e trinitarie a dare corpo ontologico all’attuale concetto di persona. L’uomo è stato guardato guardando Cristo. La Sua unicità e la Sua trascendenza hanno definito le caratteristiche fondamentali dell’umano. In questo quadro, i rapporti con l’altro – le relazioni tra singoli, gruppi, generi, generazioni; con le istituzioni, le cose, la natura – si liberano dall’astrazione e possono essere considerate a partire dalla categoria biblica (concreta, pragmatica) dell’alleanza, che è sempre l’alleanza di qualcuno con Qualcun altro.

In questi tempi d’imprecisata quarantena, d’infinito lockdown – in cui l’intera umanità sperimenta la condizione di deprivazione della libertà e delle relazioni (siamo tutti detenuti, rei di una colpa che nessuno singolarmente ha commesso, che nessuno pertanto può perdonare), in cui ogni individuo riscopre la sua fragilità, per lungo tempo nascosta dietro alla baldanza del potere tecnico (cioè puramente strumentale) della collettività, in cui hanno più voce e più ascolto, però, i tanti che si lasciano commuovere dalla compassione e, spesso senza saperlo, agiscono come risorti, come sale della terra e luce del mondo – è saggio ricordarsi le parole di Blaise Pascal, trascritte nei Pensieri:

“La grandezza dell’uomo sta in ciò: ch’esso ha coscienza della propria miseria. Una pianta non si conosce miserabile. Conoscersi miserabili è pertanto un segno di miseria; ma è, in pari tempo, un segno di grandezza. L’uomo non è che una canna, la più debole della natura, ma è una canna pensante. Non c’è bisogno che tutto l’universo si armi per schiacciarlo: un vapore, una goccia d’acqua basta ad ucciderlo, ma, anche se l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe ancor più nobile di chi lo uccide, perché sa di morire e conosce la superiorità dell’universo su di lui; l’universo invece non ne sa niente”.