DIARIO DA NEW YORK – È Venerdì Santo. Nuvoloso e grigio come ci si aspetta che sia. New York continua a essere silenziosa, ieratica. Oggi si fanno sentire poco anche gli uccellini, la voce bella e lieta della primavera. Solo sirene e un sommesso pianto che si leva ormai da tante case. Nel chiuso delle propria abitazione di pianto si sente solo il proprio, ma nel cuore non si può non avvertire anche quello degli altri. Sono ormai più di cinquemila i newyorkesi che il coronavirus si è portato via e “la bestia” non sembra essere sazia.



I numeri continuano a crescere e così i cadaveri che finiscono portati qua e là, dove si trova spazio in questa città verticale fatta per i vivi e non per i morti. Tanti corpi di ignoti, esseri umani che nessuno ha cercato o reclamato, in anonime bare fatte su in legno grezzo, depositate in fosse comuni ad Hart Island, un’isoletta nel Bronx. Il Potter’s field di New York City, il campo del vasaio. Fino a ieri pensavamo che le fosse comuni potessero esistere soltanto in quei Paesi squinternati e martoriati da chissà quali conflitti, dall’altra parte del mondo. Adesso diventano il riflesso sotterraneo della megalopoli che abbiamo costruito in superficie. La solitudine in cui tanti hanno vissuto diventa l’abbandono nella morte. La capitale dell’impero deve cercare di liberarsi frettolosamente di chi fino a qualche giorno fa la abitava e adesso non c’è più.



Venerdì Santo. Quest’anno è diverso da come ho imparato a viverlo negli ultimi venticinque anni seguendo sul ponte di Brooklyn la croce di Colui che muore per risorgere. Quest’anno il Brooklyn Bridge sembra lontanissimo nel tempo e nello spazio. Il New York Post ce lo ricorda mostrandoci due foto, un anno fa e oggi. Dopo venticinque anni niente popolo a camminare in preghiera, ma un video da seguire, tutti alla stessa ora, in una forma di unità diversa. Siamo nelle nostre case ad ascoltare, a guardare immagini.

È un Venerdì Santo di grande povertà, ma per questo ancora più stringente, spogliato com’è anche di quella bellezza che il procedere silenziosamente sul ponte e le note del coro gli donavano quasi a rendere meno dolorosa la via del Calvario. Oggi restano solo la sofferente bellezza del volto insanguinato di Gesù e il suo sacrificio. Gesù in croce ed io, in una New York City crocifissa anche lei. Non c’è altro. Voglio fissare lo sguardo su quella croce o voglio cercare di fare come se in questo mondo della croce si può fare a meno, come se gli amici che son morti non lo fossero? Oggi neanche New York riesce a far abbastanza rumore da distrarti da queste domande. 



È Sabato Santo. Ieri la morte, oggi si aspetta. Ma cos’è che si aspetta? Si aspettano Cuomo e de Blasio che ci portano i dati delle ultime ventiquattro ore, così, per farci avere un’idea dell’aria che tira e ci raccomandano di aver pazienza e di aiutare standocene buoni a casa. Sì, ma aspettando cosa? Si aspetta che passi tutto e tutto torni come prima? Se anche così fosse, i tempi saranno lunghi e questo fa crescere il timore che se non ci ammazzerà il virus lo farà la povertà. Solo settimana scorsa quasi sette milioni di americani hanno richiesto l’assegno di disoccupazione, un contributo che è poca cosa, ma meglio del niente che ci circonda e del niente che entra in casa.

Oggi è Sabato. Ieri i numeri delle vittime sembravano più crudeli, oggi la curva dei decessi sembra appena meno drammatica. Basta questo per riprendere a sperare? È questo che aspettiamo? L’inversione della curva? E Trump cosa starà aspettando? Virus permettendo a novembre si vota e per la politica, per la campagna presidenziale, il virus sarà un’arma letale e a doppio taglio. Chi ce l’ha raccontata giusta? Chi ha saputo dare speranza al Paese? Chi è riuscito a fare un salto al di là dei criteri abituali e immaginare un passo nuovo per favorire una ripresa sia sociale che economica? Quel che ci tocca oggi come oggi è un Trump che il più delle volte parla senza sapere quello che dice, un Biden che non sa cosa dire, e un Sanders che ha deciso che è ora di starsene zitto. E noi cosa aspettiamo? New York nel suo silenzio sepolcrale cosa aspetta?

Aspettiamo un miracolo. Aspettiamo di scoprire che la morte non è l’ultima parola su niente, sulla paura di ammalarsi, di restare senza lavoro, neanche di essere dimenticato e sepolto senza nome. Magari confusamente, ma oggi anche New York alle corde e la sua gente rintanata capiscono che non c’è altro da aspettare.

È Domenica. Chi ha sconfitto la morte abita più di prima quel deserto del Ponte di Brooklyn, quegli spazi vuoti di Times Square, di Central Park. E chiede di venire ad abitare le case in cui siamo costretti. Così che le case non siano sepolcri, ma semi di vita nuova.

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