Un articolo che introduce e presenta un album non può indulgere troppo su una retrospettiva dell’artista. Nel caso di Pat Metheny poi è pressoché impossibile: quasi 50 anni di carriera, 20 Grammy Awards e 37 nomination, album e attività live che spaziano a tutto campo fra molti, se non tutti i generi della musica contemporanea. Ah, chitarrista, con una ovvia predilezione per la chitarra semiacustica, la più usata nel jazz, suo primo e più profondo territorio di appartenenza, ma innovatore in tempi non sospetti mediante l’introduzione della synth-guitar e ottimo perlustratore di classica ed acustica in molti dei suoi lavori. E uno dei compositori più prolifici ed innovativi dell’ultimo mezzo secolo, affiancato per gran parte del viaggio – quella parte chiamata Pat Metheny Group – dall’immenso pianista Lyle Mays, recentemente scomparso. Che altro dire? Se volete cominciare la sua conoscenza – estremamente consigliato, fidatevi – partite da questo album del 1987 e poi c’è solo l’imbarazzo della scelta.
Oppure cominciate da quest’ultima fatica, alquanto particolare per la verità, dal titolo Road To The Sun, uscito in questi giorni per Modern Recordings, etichetta della BMG dedicata a jazz, classica ed elettronica.
Certamente ‘particolare’ non è un termine nuovo, o usato a sproposito parlando di Pat Metheny. Come già accennato sopra, la sua poliedricità lo ha portato in territori molto distanti uno dall’altro, tutti scandagliati a fondo dalla sua grande voracità musicale, dimostrata fin da “ragazzino di campagna del Missouri”, quando prima di intraprendere gli studi di jazz ascoltava di tutto, dai Beatles, a Miles Davis, a Wes Montgomery – come l’artista stesso ricorda nella scheda di presentazione del disco fornita alla stampa. Questo album è l’ennesima mutazione dell’artista, che nemmeno suona, fatta eccezione per l’ultimo brano della tracklist, una composizione di Arvo Part eseguita da Metheny sulla Pikasso 42 strings guitar, un fantasmagorico strumento acustico realizzato per lui da Linda Manzer, costruttrice canadese e da sempre ‘dottore’ delle chitarre dell’artista.
Le altre dieci tracce si dividono in due suite: la prima, Four Paths Of Light, è divisa per l’appunto in quattro movimenti ed è affidata all’esecuzione del chitarrista classico originario di Buffalo Jason Vieaux. Virtuoso dello strumento, affronta senza timori brani dall’alto contenuto armonico e tecnico, che ricordano ora le opere di Heitor Villa-Lobos, ora invece l’opera di un altro grande intersecatore di mondi, il chitarrista e compositore Ralph Towner. Non dimentichiamo che nel 2005 Vieaux pubblicò Images of Metheny, album in cui reinterpretava per chitarra classica alcune fra le più belle composizioni del chitarrista del Missouri, trasformandone fra l’altro cinque in altrettante rielaborazioni in forma barocca, unite in una suite. Chissà che questa scelta di Metheny di affidare a Jason questa nuova suite non sia una sorta di regalo di ritorno, a distanza di tre lustri.
La seconda suite, stesso titolo dell’album – Road To The Sun, in sei movimenti – è invece affidata ad un prestigioso ensemble composto da tre chitarre classiche ed una 7 corde, il Los Angeles Guitar Quartet. William Kanengeiser – uno dei quattro membri dell’ensemble – afferma che la suite è uno dei più importanti apporti alla letteratura per quartetto di chitarre in assoluto. All’ascolto emergono, oltre a bellissimi temi, tipicamente methenyani, l’uso dello strumento in tutte le sue possibilità, melodiche, armoniche timbriche e financo rumoristiche. In più l’uso sinfonico degli strumenti fa leva sulla spazialità, su passaggi a botta e risposta, il tutto in un caleidoscopio di generi mescolati ad arte dalla scrittura puntuale ed affascinante del compositore. Di questa seconda suite in particolare il secondo movimento fa riaffiorare il ricordo di un disco che il giovane Metheny fece in totale solitudine nel lontano 1979, New Chautauqua, in cui già consacrato come stella nascente del jazz e di quella che allora si cominciava a chiamare fusion, prende subito una strada laterale per esplorare in solitaria degli affascinanti scenari acustici. Menzione particolare poi – tornando al presente – per l’ultimo brano di questa suite (Part 6), che invece riporta a brani di grande poesia dello sterminato repertorio dellartista, quali The Bat, part II (da Offramp, 1982) o forse ancor di più Letter From Home, brano conclusivo dell’omonimo album del 1989. Interessante anche il parere di un membro fondatore del quartetto di esecutori, Scott Tenant: “Che meraviglioso flusso armonico e melodico. Pur riconoscendo i suoi fan che si tratta indubbiamente di Metheny, lui sviluppa il suo materiale tematico in una maniera così ricca che anche un abituale frequentatore di concerti potrebbe smarrirsi. Un panorama sonoro di dimensioni epiche.” E ancora: ”L’architettura formale e l’intricato sviluppo melodico danno l’integrità strutturale di una rigorosa composizione classica, ma il linguaggio è puro Pat Metheny. È uno dei pezzi più ambiziosi e potenti che abbiamo suonato nei nostri 40 anni insieme.”
A corredo di quanto esposto sopra, due video disponibili su youTube dicono qualcosa in più sulla genesi del lavoro: un mini documentario di 4 minuti sul making of ed un breve estratto delle prove con il Los Angeles Guitar Quartet.
Un chitarrista che scrive musica per altri chitarristi, quindi. L’ennesima esplorazione, l’ennesima trasformazione di Pat, l’eterno ragazzo che non smette di cercare nuove strade e di stupire chi ascolta. Sì, perché alcuni tra i fan hanno già detto e scritto molto sul fatto che questo non sarebbe il vero Metheny. E poi ognuno evidenzia il suo Metheny migliore, senza peraltro riuscire a contenere la poliedricità del chitarrista in una sola definizione.
Ma non usciamo spaventati dalle definizioni altisonanti qui sopra: Pat Metheny è un compositore di grandissima qualità, ma le sue composizioni sono ascoltabili da tutti. Meglio: da tutti coloro che scelgano di immergersi in un viaggio sorprendente e poetico.