Non è scontato che un musicista pluripremiato, innovatore, poliedrico come Pat Metheny, a 67 anni suonati si rimetta ancora una volta in gioco, e lo faccia con l’ennesima trasformazione. L’uscita del suo Side-Eye NYC (V1.IV) arriva a pochi mesi dal suo tributo alle chitarre classiche Road To The Sun e a poco più di un anno e mezzo dall’ultimo – in studio – a suo nome, From This Place, definito da Downbeat “2020 Jazz Record of the Year” ed uscito a fine febbraio 2020, proprio mentre il mondo si stava fermando. A quell’epoca era già stato registrato il materiale che fa parte di questo nuovo progetto, in cui il chitarrista ha coinvolto due giovani musicisti, il 34enne batterista Marcus Gilmore ed il pianista/organista/tastierista James Francies, di soli 26 anni. Già lodevole il mettersi a nudo in una formazione minima, in più il materiale del disco è registrato dal vivo, nel novembre e dicembre 2019 a New York. Ma questo non è un problema per un grande improvvisatore come Metheny ed i suoi comprimari, abituati forse a raccogliere ancora più onori nelle performance live rispetto a quelle in studio. Questi brani avrebbero dovuto far parte del repertorio di una lunga tournée di circa 100 date – bloccata come tutto dalla pandemia – che partirà solo questo autunno dagli Stati Uniti e toccherà l’Italia nella prima metà del maggio 2022. Tassello assolutamente inevitabile del mosaico, ormai, quello della performance dal vivo, in tempi in cui nemmeno i grandi possono più contare sulla vendita dei supporti fisici. 



Ma Metheny non è mai stato in pantofole: nelle varie mutazioni in cui si è immerso, dallo storico Pat Metheny Group a Unity Village, dal trio classico chitarra/basso/batteria a questa recente formula simile all’Organ trio, il chitarrista ha registrato un numero impressionante di album e si è esibito (dall’esordio a metà anni ’70 con la band dell’immenso vibrafonista Gary Burton) in una serie altrettanto impressionante di concerti. 



Ma in definitiva cosa c’è in questo lavoro? Il brano di apertura It Starts When We Disappear e quello finale, Zenith Blue sono brani nuovi, due suite che occupano quasi mezz’ora di spazio sonoro, come è usuale in molte delle produzioni del Metheny di più ampio respiro. Composizione inedita anche Lodger, che occupa il quinto spazio della songlist. Alternati a questi, altri cinque brani, tratti dal repertorio del passato e rivisitati nel mood e negli arrangiamenti. Better Days Ahead è tolta dall’album che chi scrive ha amato di più: Letter From Home – Pat Metheny Group, 1989. Dopo il quarto d’ora di galoppata del primo brano, qui, alla traccia 2, tutto si ferma in una sorta di bossa lenta, in cui Francies improvvisa sulla sua tastiera quasi evocando lo spirito di Joe Zawinul, e ci riesce un gran bene. Nota bene: in questo come negli altri casi non giova fermarsi a confrontare la nuova versione con l’originale, sono brani diversi, in qualche modo volutamente una sfida, per chi suona e per chi ascolta. 



Alla traccia numero 3 troviamo Timeline, uscita nel 1999 nell’album Time Is of the Essence del gigantesco sassofonista Michael Brecker. Nell’originale insieme a Metheny e a Brecker suonavano niente meno che Larry Goldings all’organo e il mito della batteria Elvin Jones; i due giovani comprimari di Metheny presenti qui reggono decisamente il confronto. Dal primo album uscito a nome Pat Metheny nel 1976 vengono i brani che stanno alla traccia 4 e 6; l’album era Bright Size Life e insieme al batterista Bob Moses nella line-up dell’album al basso c’era niente meno che un giovanissimo e già fatale Jaco Pastorius. Non dico nemmeno chi era, se qualcuno non lo sa, lo deve scoprire da solo. Anche questi due brani sono rielaborati in questa nuova formazione e come sempre fanno da base per nuove improvvisazioni, sapete, in quello che chiamano jazz è così. Riprendendo il discorso, alla 4 troviamo il brano omonimo, Bright Size Life e alla 6 Sirabhorn, affascinante studio armonico ripreso molte volte ed in varie forme dal vivo dal chitarrista del Missouri. 

Nella già citata Lodger (traccia 5), il fantasma che appare è quello di Jimi Hendrix e della sua Little Wing, che fatte salve alcune variazioni, pare fare da sfondo alla storia musicale che si sviluppa qui. Ed infine alla 7 c’è Turnaround, unico brano non composto da Metheny, ma da Ornette Coleman ed incluso nell’album 80/81, ove pure era presente il già citato sassofonista Michael Brecker, insieme all’altro compagno di mille avventure, il contrabbassista Charlie Haden. 

Che aggiungere? Innanzitutto non sono d’accordo con chi sta parlando da giorni di un calo della creatività di Metheny. Potranno esserci sicuramente episodi più rappresentativi, altri meno, ma credo che si debba sempre tener conto di una carriera di quasi cinquant’anni, con un palmarès che lo ha visto vincitore di Grammy Awards in dodici (leggasi 12) categorie diverse, ed anche del fatto di non essersi voluto mai sedere sugli allori. A me l’album è piaciuto, l’ho ascoltato provando a cogliere le sfumature del linguaggio, le capacità tecniche e l’interplay fra il maestro e i giovani, che sono cresciuti sentendo (anche) i suoi pezzi ed ora li suonano a loro volta con maestria. 

Forse nei due lunghi brani nuovi di apertura e chiusura dell’album ci si rifà compositivamente un po’ ad un cliché, basato su una composizione a blocchi, in cui fra dinamiche talvolta un po’ esagerate (al limite del parossismo) si fatica un po’ a trovare temi cantabili, così tipici di certi altri brani di Metheny. Ma è una scelta compositiva, una pittura dal gesto eloquente e dalle tinte forti, un viaggio da fare, magari ad occhi chiusi e poi capire che esperienza ne è stata fatta. 

In ogni caso, sicuramente l’energia, la fantasia e la voglia di suonare di Pat Metheny non sono ancora finite ed ogni volta la sfida è inventarsi dei contesti nuovi, trovare nuovi collaboratori, creare nuova musica senza fermarsi mai. 

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