La femminista, ex deputata del PD e impegnata nei diritti sociali e civili Anna Paola Concia ha riflettuto in un’intervista sul quotidiano La Verità sul fenomeno del patriarcato più volte tirato in ballo dalle – cosiddette – neofemministe per attaccare una certa cultura maschile che tende ad affermare il predominio dell’uomo sulla donna alla base dei sempre più frequenti femminicidi; il tutto partendo da quella che ritiene essere una verità inconfutabile: “In 40 anni di lotte – spiega -, noi femministe al patriarcato abbiamo dato una bella botta” che l’avrebbe quanto meno lasciato “tramortito”, collegando la crescente violenza contro le donne agli “strascichi di una cultura che ancora non si rassegna“.
Contro il patriarcato – ricorda ancora Concia – “sono state fatte delle leggi, si son fatti passi avanti sul piano culturale” al punto che innegabilmente “oggi noi donne non viviamo più con il patriarca sopra la testa“, pur non negando (quasi ovviamente) che “resistono disuguaglianze tra uomini e donne”; mentre quella cultura strettamente patriarcale a suo dire si ravvisa solamente più “nei Paesi dell’integralismo islamico e in quelle comunità (..) che non si sono integrate” con l’occidente.
Anna Paola Concia: “Oggi più che di patriarcato dovremmo parlare di machismo e mascolinità tossica”
In questo contesto, l’errore più grosso è commesso – secondo Concia – dalle neofemministe che portano avanti una corrente di femminismo in cui lei ci tiene a condannare e criticare “l’integralismo e la matrice profondamente anti occidentale” caldeggiata da una certa parte “dei media che tende a cancellare la differenza sessuale”; dimenticando – o forse ignorando – che “l’identificazione tra l’essere donna e l’essere vittima è una trappola mortale che rischia di consolidare il patriarcato“.
Parola che oggi dal suo punto di vista andrebbe sostituita con le più correte “machismo e maschilismo” che richiedono una sforzo ben maggiore rispetto alle leggi, così come la “mascolinità tossica” che dal conto suo è la reale responsabile dei femminicidi che – dunque – vanno necessariamente ricollegati anche al fatto che “stiamo educando generazioni incapaci di accettare le sconfitte” in quello che definisce una sorta di “sindacalismo protettivo dei figli [che] non li aiuta a crescere”.