La Commissione per i bilanci del Parlamento Ue ha messo a punto uno schema per introdurre nuove tasse sui cittadini europei per finanziare il Next generation Eu e la transizione energetica. Le nuove tasse potrebbero avere la forma di una patrimoniale europea o di una percentuale dei redditi oltre certe soglie. L’altro ieri il Fondo monetario internazionale ha tagliato le stime di crescita globale e in particolare quelle dell’Europa in seguito allo scoppio del conflitto in Ucraina e alle sanzioni imposte contro la Russia. Per ora tali sanzioni hanno risparmiato i settori più sensibili: le importazioni di petrolio e gas. L’inflazione sia negli Stati Uniti che in Europa è ai massimi degli ultimi quarant’anni e in Europa, soprattutto se le sanzioni si dovessero inasprire, l’incremento dei prezzi potrebbe peggiorare ulteriormente. I “lockdown” in Cina e le guerre commerciali minacciano le catene di fornitura globale e la disponibilità di beni. In questo scenario il potere di acquisto delle famiglie viene eroso a ritmi record.
La narrazione sui soldi europei che cadono dal cielo come una vincita alla lotteria è da sempre fuorviante. Non esistono soldi gratis; si pagano o sotto forma di inflazione o sotto forma di nuove tasse come appunto una patrimoniale europea. L’inflazione, dal punto di vista della politica, ha il merito di essere una tassa che non deve essere discussa né approvata e la cui responsabilità, precisa nella sua genesi, agli occhi degli elettori evapora. La nuova tassa per finanziare la transizione energetica è sicuramente affascinante nella sua presentazione. Eppure in una fase di chiaro rallentamento economico se non recessione si pone la domanda su quali siano le priorità. Il rallentamento economico provoca un crollo del gettito fiscale mentre la macchina pubblica che eroga servizi di ogni tipo continua a pretendere le stesse risorse a meno di ipotizzare tagli: alla sanità, alla difesa, al numero di dipendenti pubblici, ai loro salari e così via. Nell’elenco delle voci di spesa ci sono capitoli più difficili da affrontare politicamente e altri, tendenzialmente quelli per i servizi come la sanità, che possono essere mascherati molto più facilmente.
La transizione energetica non è a costo zero per le tasche degli stati e dei cittadini. Se fosse conveniente non ci sarebbe bisogno né di incentivi, né di interventi statali perché le imprese si attiverebbero autonomamente.
L’evidenza suggerisce che a fronte di centinaia di miliardi spesi nelle maggiori economie europee l’impatto finora è stato trascurabile. Infatti, nessuno ha ancora risolto il problema della volatilità della produzione elettrica rinnovabile; la produzione da eolico in Germania può cambiare da un giorno all’altro anche di dieci volte. Il secondo problema che nessuno ha risolto è quello dell’impatto ambientale delle rinnovabili. La produzione di litio è estremamente impattante per l’ambiente; le batterie esauste sono irriciclabili; i centri di raccolta in questi mesi vengono sommersi di vecchi pannelli solari che nessuno sa come riciclare e che vengono spesso imbarcati su navi per essere seppelliti in qualche povero o poverissimo Paese africano. La volatilità e non programmabilità dell’energia rinnovabile costringe a duplicare i costi perché bisogna mantenere operativa anche tutta l’infrastruttura tradizionale se non si vuole distruggere l’industria.
La transizione energetica ha raccolto ampi consensi tra gli elettori perché presentata in modo fuorviante come senza costi. I quali sono stati nascosti nella fiscalità generale o nelle bollette mentre l’economia cresceva e si beneficiava di un decennio di prezzi ultra compressi di gas e petrolio. Due anni fa nel mezzo della pandemia il petrolio toccava per pochissimi giorni persino prezzi “negativi”. Oggi il costo della transizione è esorbitante perché costruire una nuova infrastruttura con i prezzi della componentistica esplosi è colossale e perché l’economia su cui “insiste” e con cui si paga questa transizione si rimpicciolisce per via della crisi.
A fronte di benefici ambientali tutti da dimostrare l’energia costa molto di più e si arriva all’estremo di riportare indietro le lancette di qualche decennio a quando condizionatori e auto erano un lusso. Anche in questo caso si presenta il dilemma in modo fuorviante perché è tutto il nostro sistema industriale, che ha garantito sanità diffusa e un’aspettativa di vita molto più lunga, a essere basato su energia economica e sulla chimica degli idrocarburi. Nei fatti si chiede alle famiglie di pagare di più per avere molto di meno; la richiesta arriva spesso da ambiti che subiscono conseguenze molto inferiori alla media.
La mistificazione sui termini dell’equazione può certamente diluire o allontanare l’impatto politico e sociale su una popolazione che molto probabilmente non è a favore della transizione a ogni costo. Alla fine si introducono nuovi elementi di tensione sociale in una situazione che è già sufficientemente esplosiva. Nessuno sa quale sia il punto di rottura “sociale”; è del tutto possibile che non si manifesti fino al secondo prima del suo scoppio. “Se non hanno più pane, che mangino brioche” oggi si potrebbe ripresentare così: “se non hanno il riscaldamento, che comprino una batteria elettrica”. Non si capisce con che soldi ovviamente. Due secoli fa non è finita benissimo. Il paragone tra l’altro potrebbe non avere nemmeno bisogno di un particolare aggiornamento “tecnologico” dato che senza gas, per esempio, non ci sono i fertilizzanti.
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