Il Documento di economia e finanza è stato approvato dal Governo il 15 aprile, in leggero anticipo sulle scadenze di legge. Ci si deve complimentare il ministro dell’Economia e delle Finanze e, soprattutto, i dirigenti e i funzionari del dicastero per avere approntato in poco tempo dopo l’insediamento del nuovo Esecutivo un documento di alta qualità tecnica con interessanti analisi econometriche e un’attenta analisi di reattività al mutare di alcune ipotesi.
A queste caratteristiche, notate da qualche anno, che dimostrano come la struttura del ministero dell’Economia e delle Finanze produca documenti di livello quale che sia la guida politica del Governo e del dicastero (e possa, quindi, essere fortemente competitiva nell’Unione Europea), occorre aggiungere una nota di encomio per l’ultimo capitolo relativo a due aspetti istituzionali importanti per la finanza pubblica (e di rado trattati): la regola dell’equilibrio di bilancio per le amministrazioni locali e “il patto per la salute” e i tetti alla spesa farmaceutica. Sono due temi la cui importanza è stata accentuata dalla pandemia. Il quadro macroeconomico è stato validato dall’Ufficio parlamentare di bilancio.
Portato il Def in Parlamento, ora la struttura del Mef ha pochi giorni per mettere a punto quel Piano nazionale di ripresa e resilienza che deve essere presentato all’Unione europea e la cui qualità, rapida approvazione ed efficiente ed efficace attuazione sono condizioni perché gli obiettivi della manovra di finanza pubblica e la stessa manovra venga realizzata come ipotizzato nel Def. La manovra presuppone, infatti, una riduzione graduale dell’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni, e una crescita economica più sostenuta, di quanto sarebbe altrimenti stimabile, proprio grazie all’apporto dei finanziamenti del Pnrr.
È doveroso rilevare che qualche giorno prima del Def era stato presentato il quattordicesimo rapporto annuale del Centro Studi Economia Reale guidato da Mario Baldassarri, rapporto in cui si giungeva a conclusioni analoghe, nonostante nelle stime e simulazioni ci siano alcune differenze e il documento di Economia Reale continui le proiezioni sino al 2028 per indicare le possibili implicazioni per l’economia italiana nelle ipotesi che: a) il Next Generation Eu e, quindi, il Pnrr siamo una “una tantum”, ossia non vengano rinnovati e b) non divengano una caratteristica strutturale dell’Unione monetaria europea. Anche tenendo conto dei possibili effetti delle riforme delineate nel Pnrr, nonché ipotizzando progetti efficienti, efficaci e a elevato rendimento economico, se i flussi dall’Ue si arrestano, la crescita dell’Italia tornerà a essere molto, molto contenuta.
La pandemia ha dimostrato, ove ce ne fosse stato bisogno, ciò che un grande economista e grande amico dell’Italia (dove, nei pressi di Siena, risiedeva per diversi mesi l’anno), nonché grande assertore dell’integrazione europea, il Premio Nobel Robert Mundell (il quale ci ha lasciati il 4 aprile), ha teorizzato e ripetuto per decenni: la “teoria dell’area valutaria ottimale”, da lui formulata, dimostra che se non c’è libero movimento dei capitali e soprattutto dei lavoratori un’unione monetaria non solo non è un’area “ottimale”, ma soprattutto alla lunga non regge, tranne che non ci siano trasferimenti che riducano la necessità di movimenti dei lavoratori.
La Recovery and Resilience Facility del Next Generation Eu non è né una graziosa concessione all’Italia, né un atto di carità dato che il Bel Paese è stato tanto severamente colpito dalla pandemia, ma uno strumento essenziale per fare reggere l’unione monetaria. Quindi, lo strumento non dovrebbe durare sei anni ma diventare strutturale almeno per diversi lustri.
Le stime sia del Def sia di Economia Reale mostrano, anche nell’ipotesi di termine della pandemia entro tempo relativamente breve, la permanenza di un alto tasso di disoccupazione e di un elevatissimo debito pubblico. Due problemi gemelli che posso essere attutiti unicamente da flussi di finanziamenti verso l’Italia. Se non continuano i trasferimenti europei quale quadro si presenta?
Il debito delle pubbliche amministrazioni (attorno al 160% del Pil nelle varie simulazioni) è a livelli raggiunti cento anni fa, dopo la Prima guerra mondiale. Allora, si scelse di uscire in pratica dalla malconcia “unione monetaria latina” (nata nel 1865 tra Francia, Belgio, Italia, Svizzera, Spagna e Grecia e da cui si erano aggiunti altri Paesi, tra cui anche il Venezuela, e dissolta formalmente nel 1927), rendere la lira non convertibile, alzare barriere protezionistiche e comprimere i salari. L’esito fu “la marcia su Roma”.
Allo stesso livello il rapporto debito/Pil dopo la Seconda guerra mondiale. Allora arrivarono flussi di aiuti dagli Stati Uniti, si decise il ritorno alla convertibilità e l’apertura degli scambi e dei pagamenti in sede Oece, e venne attuata una drastica riforma monetaria che portò il debito delle pubbliche amministrazioni al 29% nel 1950. Per l’Italia, dotata di popolazione giovane e molto ben addestrata, nonché con forza di lavoro pronta a trasferirsi e imprenditori coraggiosi e lungimiranti, fu il viatico del “miracolo economico”. Il “padre” della “riforma monetaria” Luigi Einaudi, tuttavia, scrisse che sarebbe stato più equa una forte “imposizione patrimoniale straordinaria”.
Oggi non ci sono le condizioni demografiche e imprenditoriali per un nuovo “miracolo economico”. L’alto livello di risparmi nei conti correnti degli italiani (1.700 miliardi) e la difficoltà di convogliarlo verso impieghi produttivi – come ha sottolineato di recente Giuseppe Di Gaspare della Luiss – rende forte la tentazione di un’imposta patrimoniale straordinaria.
Pochi lo scrivono, ma questo è il vero fantasma che si aggira nei Palazzi.
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