Disse, una volta Patti Smith che non aveva iniziato ad occuparsi d’arte perché aveva istinti creativi, ma perché si innamorava sempre degli artisti e che l’arte non era per lei veicolo di auto espressione, ma un modo di allearsi con i suoi eroi. Semplice umiltà di una creatura che il tempo ha dimostrato essere tra le poche capaci di celebrare il connubio tra poesia e musica. E questa sera Patti non può non percepire il fascino di un luogo come il Vittoriale degli italiani, ultima dimora di un poeta, Gabriele D’Annunzio, che era stato perenne cacciatore di bellezza e del quale sembra di percepire la presenza del fantasma, ancora inquieto. In un luogo come questo le canzoni di una poetessa possono librarsi nel vento e Patti lo sa perché “l’anima della poesia possiede ali”, ci dice appena arrivata sul palco, presentando il primo brano, Wing, che ci introduce dolcemente in un concerto che si rivelerà speciale.



Patti Smith è felice di essere tornata sul palco e di aver ripreso a cantare, dopo la lunga interruzione causata dalla pandemia, partendo proprio dall’Italia. Lo dirà, di lì a poco, dichiarando il suo amore per il nostro paese, quello che, peraltro, l’aveva sconvolta, in un lontano 1979, dopo due concerti, a Bologna e a Firenze, che si erano trasformati in inferno a causa di una folla inferocita, spingendola, di fatto, verso un ritiro dalle scene che sarebbe durato dieci anni. Ma questa sera non c’è spazio per la sofferenza che ha attraversato a lungo la sua esistenza; o, meglio, non c’è spazio per la rabbia, ma per l’anima di una persona che attraverso il dolore ha imparato ad illuminare meglio la sua vita.



Grateful è il secondo brano, tratto dall’album Gung Ho e dedicato a Jerry Garcia, il compianto chitarrista dei Grateful Dead, ed è la canzone che serve ad entrare nel clima giusto della serata: “Tutto finirà bene” – canta Patti – L’ho imparato riga dopo riga / Un filo comune / Un filo d’argento / Tutto ciò che desideri / Avanza in fretta”. Ed anche My Blakean Year, terzo brano della serata, serve a sintonizzarsi sulla frequenza giusta per seguire una manciata di splendide canzoni. Prima di buttarsi in un brano che la sua voce – quella voce – colora di drammaticità, cita il dramma del Covid: è stato un periodo di dolore, dice, ed è importante che i sacrifici che sono stati fatti non vadano perduti; perché tutti siamo più ricchi, ora: “abbraccia ciò che temi – recita un verso della canzone – perché la gioia vincerà tutta la disperazione”.



Redondo Beach è la canzone dall’accattivante ritmo reggae che tutti conosciamo, ma che racconta ancora di come la morte possa interrogare l’esistenza; segue Ghost Dance ed è come se una schiera di spiriti salisse sul palco a ballare con noi: quello di Robert Mapplethorpe, di Richard Sohl, del fratello Todd e dell’adorato marito Fred “Sonic” Smith, l’incredibile serie di lutti che in cinque anni, dal 1989 al 1994, aveva colpito la sua esistenza. Poi arriva il brano dedicato al maestro di sempre, Bob Dylan. Dice che lo segue da quando era un’adolescente, grida “happy birthday” per i suoi ottant’anni e poi si tuffa in un’intima ed acustica versione di One Too Many Mornings. Ed è come se Patti, 74 anni anche per lei, cantasse di se stessa, perché c’è ancora strada da percorrere: “We’re both just one too many mornings / stiamo entrambi indietro di un mattino / And a thousand miles behind / e di milla miglie almeno”.

Dopo Tarkovsky, spoken word sopra un rock psichedelico, è la volta di Dancing Barefoot, canzone giusta per proseguire, in un clima che appare sempre più in crescendo. Dancing è una delle canzoni più potenti della Smith, in cui poesia, fraseggio e potenza del rock si sposano alla perfezione. E’ un brano che “si sviluppa su vari livelli”, disse una volta, e “si riferisce sia all’amore umano che spirituale”. I suoi versi sono potenti: “la trama della nostra vita trasuda nell’oscurità come un viso / il mistero della nascita, dell’infanzia stessa / le visite alle tombe / cos’è che ci chiama? / perché dobbiamo pregare urlando? / perché la morte non può essere ridefinita?”.

Un brano epico, dopo il quale l’amplificatore della chitarra del figlio Jackson fa cilecca. “Il momento giusto per andare in bagno, mentre lo riparano”, commenta Patti divertita. Ed è solo questione di pochi istanti, dopo di che i tre rimasti del Patti Smith Quartet si gettano in una splendida I’m Free dei Rolling Stones, mixata ad arte con Walk On The Wild Side di Lou Reed, per poi tornare sul brano degli Stones nel momento in cui la Smith si ripresenta sul palco per cantare il ritornello finale. Ce n’eravamo già accorti, ma i musicisti che accompagnano la nostra cantante sono il valore aggiunto della serata. La chitarra di Jackson è efficace, il drumming di Seb Rochford preciso, ma il vero mattatore è il fido polistrumentista Tony Shanahan – al seguito della Smith sin dall’album Gone Again del 1996 – per lo più al basso, ma anche voce, chitarra e tastiere, che dona struttura e personalità al trio che supporta la voce, ancora affascinante, di Patti.

Ce ne accorgeremo nel brano successivo, Beneath The Southern Cross, che Patti introduce citando ancora una volta la pandemia ed il senso di perdita che essa ha determinato nella nostra vita. La ritmica del brano è sempre più ossessiva, poi le note rallentano e all’improvviso tutto si fa più etereo; Patti si discosta, lascia spazio a Tony e Jackson per un basso e una chitarra che duettano tra loro, sino a che il ritmo sale di nuovo ed il finale è un vero e proprio wall of sound, su cui ricamare gli ultimi versi di quella canzone strana e spettrale, dedicata all’ex compagno ed amico Robert Mapplethorpe che muore di AIDS.

Peaceable Kingdom, subito dopo, è invece dolcissima. Patti accenna al compianto Fred e si getta in una delle sue più riuscite armonie tra parole e note. Canta di un mondo che sappia abbracciare il proprio desiderio di felicità: “Forse un giorno saremo abbastanza forti da ricostruirlo di nuovo / Costruire di nuovo il regno della pace / costruirlo di nuovo”. Poi il brano si adagia sulle liriche di People Have The Power, declamate mentre la chitarra rallenta a poco a poco, sino a concludere la canzone. Ci stiamo avviando verso il termine del concerto. Pissing In A River è eseguita in maniera appassionata: la Smith accompagna ogni singola strofa con gesti che raccontano le parole, si muove sinuosamente, abbraccia il microfono, è un tutt’uno con la sua musica e con il pubblico che la sta ascoltando. Sta per lasciarsi andare verso un finale incandescente, ma deve interrompersi perché qualcuno le porta un foglio. Lo prende in mano, lo legge e poi ne rivela il contenuto: è la serata della finale dei campionati europei di calcio, su quel foglio c’è scritto che l’Italia ha appena pareggiato con l’Inghilterra e la cosa non può non strapparle un bellissimo sorriso. “La notte appartiene all’Italia!”, dice ridendo ed è il preludio ad una Beacause The Night che non poteva certo mancare. Si vorrebbe correre tutti sotto il palco, ma c’è il distanziamento, non si può e com’è dura accettare ancora tutto questo. Tutti in piedi, però, ci possiamo stare, almeno per l’ultima canzone, una People Have The Power da cantare in coro. E’ l’apoteosi di un concerto intimo, magnetico, a tratti esplosivo, in un luogo in cui la poesia ed i suoi spiriti hanno danzato a ritmo di rock’n’roll. Patti prolunga il brano, fa cantare al pubblico il ritornello, dice più volte “don’t forget it!”, “non dimenticate!”. E’ importante: “credo che si debba lottare per le cose che ci stanno a cuore – aveva detto una volta a proposito di questa canzone – essere capaci di comunicare con le persone. E convincersi che un essere umano che sia tu o Nelson Mandela, possa davvero cambiare le cose”. Ed è una canzone che racconta al nostro io che la strada di ciascuno è unica ed irripetibile; che può essere speciale se non cessa d’inseguire verità e bellezza, che davvero, se cammina insieme agli altri, è in grado di “cambiare corso al mondo”.

I membri del quartetto si inchinano e ringraziano. Sembrano davvero felici. “Stay healthy!”, aveva gridato dentro il microfono Patti, durante l’ultima canzone, ed è certo che lei ci è apparsa ancora in splendida forma. Il cuore batte forte perché ha finalmente riabbracciato ciò che è capace di scaldargli l’anima.

Lungo il percorso in autostrada l’Italia sconfigge l’Inghilterra ai calci di rigore e la radiocronaca di Francesco Repice è un capolavoro. Patti Smith è tornata. E’ tornata la musica ed è ritornata anche la Nazionale. Siamo sulla strada che porta verso casa. Finalmente.