Nell’arco della stessa giornata di ieri i 27 Paesi Ue hanno raggiunto un accordo su due patti del massimo livello istituzionale e strategico: riguardo alle nuove regole finanziarie, dopo quattro anni di sospensione dei parametri di stabilità; e riguardo alle nuove linee-guida per la gestione dei flussi migratori, a dieci anni dall’Accordo di Dublino.
D’acchito appare una doppia buona notizia. L’Europa non è paralizzata e frammentata come troppo spesso appare o viene descritta; ed è ancora capace di costruire consenso su scelte macropolitiche: se non proprio decisive, almeno entro le scadenze del calendario suo proprio. Alla vigilia di un Natale di guerra globale non era scontato e non appare marginale.
Il giudizio puntuale del governo italiano era in agenda per oggi, come prevedibile piatto forte della conferenza stampa di fine anno della premier Giorgia Meloni. Complice un po’ d’influenza, la premier si è presa una settimana in più per elaborare tutte le valutazioni e conseguenze del doppio “Accordo di Natale”. È probabile che sia necessario a lei come agli altri leader Ue.
In particolare, il compromesso sull’applicazione transitoria del parametro finanziario del deficit di bilancio – secondo le indiscrezioni d’agenzia – ha tutta l’aria di essere al momento il collage di un frenetico giro finale di mail fra gli sherpa dell’Ecofin. Par di capire, in ogni caso, che sia stata accolta la richiesta franco-italiana di un triennio di avvio morbido della penalizzazione strutturale dal 3 all’1,5% per i Paesi con un debito superiore al 90% del Pil.
Quello siglato ieri, tuttavia, non appare certamente un “Maastricht 2.0”: di questo prevedibilmente si occuperà la nuova Commissione, dopo il rinnovo dell’europarlamento in calendario il prossimo giugno. E sul tavolo non vi saranno solo i parametri, ma una nuova governance economico-finanziaria complessiva dell’Unione: forse imperniata su un vero “ministro delle finanze Ue” .
Nell’attesa di conoscere tutti i dettagli di entrambi gli accordi, la prima impressione è quella di un doppio pareggio per l’Italia a guida destra-centro. Un risultato forse somma algebrica di una vittoria ai punti sul piano politico e di un esito invece risicato nei contenuti delle intese. Un esito conseguito peraltro dall’Italia su un campo di trasferta – quello di Bruxelles – da cui Roma tornava finora regolarmente sconfitta sotto ogni profilo: l’Italia dell’austerity imposta nel 2011, con la rimozione di un esecutivo legittimato dal voto, rimpiazzato da un premier-commissario scelto da Parigi e Berlino. E l’Italia “delegata” dalla Ue a farsi carico di tutti gli sbarchi dal Nordafrica, avendo talora alle spalle i blindati austriaci schierati al Brennero e i gendarmi anti-sommossa francesi a Ventimiglia o a Bardonecchia.
Attorno all’Italia odierna, invece, l’Europa che si accinge a rinnovare nelle urne i suoi organi di governo appare decisamente cambiata, rispetto anche solo a cinque anni fa. Solo i dettagli potranno dire se questo ha costituito una premessa favorevole alla nuova maggioranza italiana di governo, al contrario dello scenario dell’estate 2019.
Proprio in queste ore, d’altra parte, il presidente francese Emmanuel Macron sta rischiando di veder definitivamente demolita la sua leadership su una legge sull’immigrazione che è stata approvata dall’Assemblea Nazionale solo in una versione dura, votabile anche dai deputati lepenisti. E i rapporti troppo stretti con la Russia putiniana del gas non colpiscono più il premier italiano di centrodestra Silvio Berlusconi ma il cancelliere tedesco socialdemocratico Olaf Scholz, che l’altro giorno ha dovuto siglare un oneroso mega-contratto di fornitura con la Norvegia per compensare la distruzione di Nord Stream e puntellare un’Azienda-Germania più in difficoltà di quella italiana.
La sponda libica sul canale di Sicilia, nel frattempo, non ospita più una dittatura da abbattere in nome dell’export obamiano della democrazia occidentale o degli interessi post-coloniali francesi: è la costa di un’area subsahariana agitata dalle milizie islamiche e aperta a scorribande russe, cinesi, turche. Una terra di nessuno che funge soprattutto da hub di traffico di migranti, su barconi che possono trasbordare anche terroristi (anche antisemiti) o criminali.
Per un decennio la Ue ha quasi intenzionalmente ignorato (italianizzato) il problema: salvo accogliere una tantum un milione di profughi mediorientali (non africani) in Germania e prelevare poi dal bilancio Ue miliardi di “tangente diplomatica” al governo turco perché invece li trattenesse dalle rotta greca e balcanica. Non da ultimo, la guerra in Ucraina ha riversato – anzitutto in Polonia – centinaia di migliaia di profughi (altri non è affatto escluso possano ora arrivare da Gaza).
Quello approvato ieri non appare un vero e proprio “piano anti-crisi”. Trasmette in ogni caso anche all’Italia – che resta primaria spiaggia di sbarco – un impulso restrittivo sul diritto d’asilo, anche se tiene lontano dal “chiudere le frontiere”. Comunica un sicuro cambio di passo e di attenzione verso l’Italia: un Paese che ai tempi del Conte 1 era stato oggetto dell’attacco para-militare di Lampedusa e ai tempi del Conte 2 quasi sbeffeggiato nei “summit di Malta”. Se la vecchia Europa – la tecnocrazia di Bruxelles e socialdemocratici, popolari e liberali a Strasburgo – doveva un segnale di solidarietà all’Italia, era attesa anche a un colpo nel campo elettorale che si va aprendo. Le forze politiche antagoniste – soprattutto nel settore di destra – stanno registrando forti avanzate in molti Paesi membri facendo leva sul dilagare delle paure xenofobe. La risposta delle opinioni pubbliche alla correzione di Dublino si profila ora come uno dei test che dovranno dire se la giornata di ieri è destinata a passare agli annali della Ue oppure no.
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