È uno degli istituti più utilizzati nel mondo del lavoro, ma non sempre viene messo in campo in maniera corretta. Vediamo perché. Com’è noto, il patto di prova è una specifica clausola che il datore di lavoro e il lavoratore possono apporre al contratto di lavoro con l’obiettivo di sperimentare, per un periodo di tempo prestabilito, la reciproca convenienza alla prosecuzione del rapporto. In particolare, per il datore di lavoro, il patto costituisce la possibilità di mettere (appunto) “alla prova” il lavoratore, i suoi comportamenti e la sua professionalità, con il vantaggio di avere la libertà di far cessare il rapporto di lavoro senza preavviso, né motivazione (facoltà che è ovviamente riconosciuta anche al lavoratore insoddisfatto), prima della scadenza del periodo di prova o al termine dello stesso.
Quello che non tutti sanno, però, è che il patto di prova può essere affetto da vizi che possono comportare conseguenze più meno pesanti per il datore di lavoro. In alcuni casi, infatti, i vizi possono imporre al datore di lavoro la “prosecuzione” della prova cessata anzitempo ovvero la “ripetizione” la prova stessa (c.d. vizi funzionali, relativi al suo svolgimento, come ad esempio la durata non “adeguata” della prova). Nei casi più gravi, si può giungere addirittura a invalidare il patto di prova (vizi c.d. genetici), con la conseguenza che al recesso si applicano le gravose conseguenze sanzionatorie previste per il licenziamento individuale illegittimo.
Tra i vizi “genetici” rientrano, ad esempio, la mancanza della forma scritta del patto, ovvero la stipulazione del patto successiva all’inizio del rapporto di lavoro ovvero ancora i “difetti di costruzione” del patto stesso. Occorre infatti soppesare attentamente “cosa” scrivere nel patto, ovvero precisare in che cosa consista effettivamente l’esperimento al quale il lavoratore verrà sottoposto. E a tal riguardo, un tema particolarmente sensibile è quello delle mansioni che formeranno oggetto del patto di prova.
Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione e dei tribunali di merito, il patto di prova apposto al contratto di lavoro “deve contenere la specifica indicazione delle mansioni che ne costituiscono l’oggetto“: deve essere cioè chiaro al lavoratore (e tale chiarezza deve risultare per iscritto) quali sono le mansioni, e cioè le specifiche attività, sulle quali verrà svolta la prova, sulle quali il lavoratore sarà valutato dal datore di lavoro. Al riguardo, secondo alcune sentenze, le mansioni non devono necessariamente essere indicate nel dettaglio già all’interno del contratto di lavoro, essendo sufficiente che siano determinabili, anche mediante il richiamo alle declaratorie del contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro. Dunque, perché sia valido il patto di prova, sarebbe sufficiente specificare nel contratto di lavoro qual è la categoria, il livello o il profilo, in relazione al contratto collettivo di riferimento, assegnati al lavoratore, senza dover dettagliare nel contratto di lavoro le specifiche attività sulle quali le prestazioni del lavoratore saranno “provate”.
Tuttavia, nonostante le indicazioni fornite dalla giurisprudenza siano ormai consolidate, occorre tener presente che non sempre i contratti collettivi prevedono in maniera specifica in cosa consistano le mansioni o i profili in essi indicati. E questo è proprio quanto rilevato recentemente dalla Corte d’Appello di Roma, con sentenza n. 4949/2022, pubblicata all’inizio di quest’anno. Nel caso trattato dalla Corte, il patto non prevedeva l’esplicazione delle attività che la lavoratrice avrebbe svolto, ma solo un “richiamo” alla mansione di “addetta ai negozi e/o filiali d’esposizione” prevista al quinto livello di inquadramento del CCNL applicato. La Corte capitolina ha osservato che la mansione di “addetto a negozi o filiali di esposizioni“, pur prevista nel Contratto Collettivo, non era sufficientemente specifica per consentire al lavoratore di comprendere l’oggetto della prova. In particolare, la Corte ha osservato che “mentre gli altri profili [previsti nel Contratto Collettivo] sono effettivamente specifici e in quanto tali idonei a consentire l’individuazione delle mansioni e, quindi, dell’oggetto della prova se pattuita, non così può dirsi per il profilo n. 6) di “addetto ai negozi o filiali di esposizione”, perché il termine “addetto” è generico e omnicomprensivo e i termini “negozi” e “filiali di esposizione” sono analogamente “muti” rispetto all’individuazione delle mansioni oggetto del contratto di lavoro”.<
La Corte ha rilevato che “in mancanza di una maggiore specificazione nel contratto individuale di lavoro, il richiamo a quel “profilo” indicato nel Ccnl è insufficiente, potendo essere molteplici e oggettivamente diverse e quindi non univoche le mansioni riferibili a quel profilo” e ha dunque dichiarato l’illegittimità del patto di prova “per indeterminatezza e indeterminabilità del suo oggetto” e, conseguentemente, l’illegittimità del licenziamento “in quanto motivato con riferimento ad una prova esperita sulla base di un patto nullo“.
Le insidie legate al patto di prova non sono pertanto da sottovalutare. L’affrettata apposizione del patto all’interno del contratto di lavoro, magari nella convinzione che sia sufficiente prevederlo per ritenersi “liberi” di cessare il rapporto nel caso di una valutazione negativa delle prestazioni rese dal lavoratore può dunque costare molto cara al datore di lavoro. Si tratta, pertanto, di un terreno scivoloso.
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